Capitolo 2. La terrona morsicata.


          La  terrona  morsicata.

 

Sul traghetto che da Salerno porta ad Amalfi c’è una comitiva di turisti giapponesi di mezz’età con qualche bambino,  uomini e donne  vestiti in completi grigio più o meno scuro,  intorno ad una bella ragazza alta e slanciata in jeans e polo azzurra aderente sui seni pronunciati dove si intravvede l’ovale dei capezzoli, i capelli legati in una treccia che dalla nuca girano sulla spalla destra scendendo tra le tette fino all’ombelico. I suoi occhi hanno tratti orientali poco marcati, probabilmente deve essere una bastarda, un incrocio tra un genitore italiano ed uno giapponese, prima l’ho sentita parlare con un marinaio in italiano con inflessioni del dialetto campano ed ora sta descrivendo la zona in perfetto giapponese. La treccia oscilla alle sue parole dondolando leggermente. I turisti l’ascoltano, qualcuno le guarda di sottecchi le tette leccandosi le labbra, altri scattano fotografie. Nel casotto vetrato ci sono sei suore in nero sedute incuranti del paesaggio, a capo chino si fanno scivolare tra le dita i grani del rosario biascicando preghiere sotto voce.

Siamo a fine marzo, l’entroterra della costiera è tappezzato di fiori colorati, sembra la tavolozza di un pittore che inizia a dipingere, qua e là pennellate con piccoli paesini tra i vigneti, casali isolati, torri, chiesette, il mare si frange contro la costa sollevando spruzzi di spuma bianca che sfumano sulle rocce e gli scogli rendendoli smeraldi luccicanti in un paesaggio di favola.

Sulla voce della guida che descrive i particolari in lingua giapponese si sente brontolare il motore del traghetto e lo struscio dell’elica nell’acqua, un leggero venticello accarezza i suoni profumandoli di mare, è mattino, il sole splende tra sparse nuvolette che gli danzano intorno piroettando. L’aria è tiepida e si sta riscaldando.

L’autore è dall’altra parte del foglio, per sé si immagina un vecchio uccello con la forma di un poeta in viaggio di piacere alla ricerca di un’idea per scrivere la storia. Solita aria da chisseneimpippa che guarda e non guarda, come è vestito non ha importanza.

Mentre uno stormo di gabbiani si esercita strillando e lanciandosi in picchiate vertiginose verso la nave un giapponese si stacca dal gruppo e si avvicina, accenna un leggero inchino a cui rispondo con un cenno del capo imbarazzato, sorride poi prosegue e scatta qualche foto verso i gabbiani.

Fino ad Amalfi non succede altro, al porto sbarchiamo ed entro in paese. Non ho ancora idea di cosa fare, l’ispirazione mi suggerisce di continuare il viaggio verso Napoli a piedi seguendo la costa ed il caso. Nella piazza il campanile del duomo in alto sullo sfondo della scalinata sta suonando le undici, gente che cammina entrando ed uscendo dai negozi, un gruppo di neri africani sfaccendati seduti ed intorno ad una panchina che guardano per aria a bocca aperta i piccioni volare. Tra le case spicca l’insegna di un grasso tacchino con i bargigli gonfi e la coda aperta sopra un ristorante con a fianco la croce di un negozio di pompe funebri, più in là, con un paio di Ferrari posteggiate davanti, c’è una gastronomia dove vado a fare spesa. Quando esco faccio in tempo a vedere il gruppo di giapponesi entrare nel paese seguendo la guida e le suore  inghiottite dal portale del duomo, vago curiosando le vetrine e la forma del culo delle campane poi verso mezzogiorno mi incammino per la strada che va a Sorrento ed il primo sentiero che sale lungo la costiera lo prendo e vada come vada.

Avventura tratta con poche pennellate, sull’argomento son già state scritte tonnellate di carta, i profumi, i colori, le musiche…sul dunque passano le ore ed i piedi camminano, sul promontorio lontano soffuso da una nebbia velata si intravvedono le gobbe del Vesuvio, il sentiero si è allargato e sta scendendo, passo vicino ad un piccolo cimitero abbondonato su un colle, le tombe invase dall’erbaccia, cinto dalle rovine di un muro crollato con vicino una piccola pieve di pietra dal portale infranto ed il campanile con le campane arrugginite. Più avanti ci sono numerose aperture nella roccia, da una si vedono uscire due tipi in tuta da lavoro completamente anneriti di carbone, mi guardano indifferenti poi scendono a passi spediti per un viottolo che porta ad un piccolo villaggio di pescatori sulla costa.

Aspetto che scompaiano alla vista e poi seguo il loro sentiero, il sole si sta arrossando di tramonto e devo trovare un posto per passare la notte. Il paese sembra abbandonato, le case sono quasi tutte sprangate ed i muri anneriti e ricoperti d’edera, ci sono solo due strade perpendicolari tra loro che si incrociano al centro dove c’è una piazzetta circolare con una locanda trattoria a tre piani coi gerani rossi sui balconi e l’insegna, si vedono delle lettere mancanti, con quel che resta si legge: “Dalla Mona”

Entro per chiedere se hanno una camera. Nell’ingresso c’è il bar, bottiglie agli scaffali, qualche tavolino, un intenso odore di pesce fritto misto ad un infinità di altri odori per il momento indistinguibili. Dietro al bancone c’è l’ostessa, una bionda formosa sui quarant’anni, gonna rossa e camicia a fiori aperta sui seni dove penzola un piccolo pugnale d’oro simile ad una croce appeso ad una catenina. Sta leggendo una rivista, mi guarda imbronciata e saluta in dialetto.

Ricambio il saluto, chiedo per la camera e lei continuando in dialetto, con voce femminile ed aspra, dice: “Sei del nord, sarai mica un leghista?... ce li hai i soldi?”

Per non sprecare parole tiro fuori dal portafoglio un paio di biglietti da cento euro e glieli faccio dondolare davanti agli occhi.”

L’ostessa è belloccia, gli occhi scuri perlacei, le labbra grandi sbiadite dal rossetto quasi consumato, l’aria di un maiale ben nutrito ma nell’insieme leggermente sciatto. Si drizza sulla schiena arrossendo come se mi avesse letto il pensiero e continua, questa volta dandomi del lei: “Va bene, sa com’è, fidarsi è bene ma…se si accontenta la camera c’è, ca non facimmo li signori, venga che le faccio vedere.

Prende una chiave da una bacheca e la seguo sulle scale, cammina ondeggiando, un sedere tondo ed appetitoso…le gambe rosa senza calze, i piedi con le unghie laccate di rosso anche questo sbiadito dentro zoccoli che fa tamburellare sul legno del pavimento. La camera al primo piano è piccola con una finestra dalle tendine traforate che dà verso il mare, un letto, un comodino,un armadio ed un tavolo con due sedie. Sulle pareti ingiallite di salsedine qualche quadretto con immagini di santi e di pescatori sullo sfondo del Vesuvio.”

La bionda dice: “Il bagno è fuori, in fondo al corridoio, tanto se non arrivano altri c’è solo lei…si cena alle otto.” Guarda l’orologio al polso e continua: “Fra due ore, se vuole…qui si fa così, quello che c’è, menù della casa, la camera sono trenta euro a notte, poi quello che consuma…quanto conta di fermarsi?” Mi guarda fissando gli occhi e prosegue: “ma io la devo aver già vista…però non ricordo.”

Rimane pensosa a bocca aperta e rispondo: “Forse qualcuno che mi somiglia, è la prima volta che vengo da queste parti. Il prezzo va bene, prendo la camera per questa notte poi domani si vedrà. C’è da divertirsi in questo posto?”

L’ostessa si adombra e risponde: “Qua non succede mai niente ma non si può mai sapere, c’è il mare ed il pesce è fresco…”

Mi guarda alludendo sulle ultime parole, restiamo qualche minuto a definire i dettagli ed esco a fare quattro passi in attesa della cena.

Il paese, a parte la piazza col pavimento in pietra dove c’è una fontanella con un filo d’acqua che esce come una bava dalla bocca di un piccolo puttino alato che si alza su un pinnacolo al centro della vasca, non offre nulla di interessante, le case strette tra i vicoli accatastate una sopra l’altra come a formare gli spalti di un’arena sembrano disabitate. Al porticciolo c’è un pontile di legno che si allunga per una decina di metri nell’acqua con qualche barca attraccata. Esco per la strada principale seguendo il bagnasciuga, poi un sentiero ed arrivo ad una piccola baia dove il mare insinua la sua lingua leccando le rocce con spruzzi golosi. La costa rientra formando un antro che penetra la montagna, nell’oscurità della volta si sentono i riverberi delle onde amplificati dalle pareti uscire come musica insieme a nugoli di pipistrelli che volano alla caccia.

A qualche metro dalla spiaggetta, sbattuto dalle onde, c’è uno scoglio levigato alto un paio di metri con la cima concava  dalla vaga forma di una comoda poltroncina, l’acqua è bassa, il fondale ghiaioso di sassolini multicolori dove guizzano piccoli pesci argentati, tolgo scarpe e pantaloni e ci salgo sopra accomodandomi per una pausa dopo la lunga camminata.

Il tramonto rende tutto di fuoco, sull’orizzonte del mare, confusi tra vapori morganici, si intravvedono navigare lente grosse navi, due bottiglie vuote che galleggiano sull’acqua all’interno dell’antro imprigionate in una sacca si incontrano e sbattendo tra loro iniziano a tintinnare come bicchieri che brindano, i suoni risucchiati dalla grotta tornano indietro amplificati dall’eco in un carillon modulato di cin cin, arriva un onda più grande e li disperde, riprende il solito sciacquio a cui si aggiunge il suono di qualcuno che sta nuotando. In linea con il sole che sta tramontando all’orizzonte si vede una testa sporgere su e giù dal mare al movimento delle bracciate avvicinarsi allo scoglio, una ragazza bruna, restando col corpo in acqua, sputa uno zampillo  e dopo avermi fissato per qualche secondo con aria visibilmente contrariata dice: “Che ci fai li? Quello è il mio posto.”  

 

La ragazza è graziosa, giovane, sotto l’acqua si vede che è completamente nuda. Punzecchiato dalle sue parole brusche rispondo: “Non sapevo che fosse proprietà privata, non ho visto nessun cartello.”

Lei sempre brusca, ribatte: “Ah, sei anche del nord, sarai mica un leghista? Quello è il mio posto!”

“Quante storia, va bene, te lo lascio, me ne vado subito.”

Con una spinta dei piedi si allontana di qualche metro e dice: “No, stai pure, tanto ormai hai rotto la magia, non mi troverei più.”

“Quale magia?”

In quel momento le due bottiglie riprendono a tintinnare, si sentono i cin cin amplificati dalla grotta sciogliersi armonici sugli spruzzi delle onde. Rimaniamo in silenzio ad ascoltarli fin quando la musica tace.

La ragazza dice: “Quelli sono Pietro e Caterina, sono io che li curo, ogni tanto le bottiglie hanno bisogno di essere svuotate altrimenti affondano e non cantano più. Si vogliono molto bene, tutte le volte che si incontrano fanno festa.”

Interessato dalle sue parole chiedo: “Pietro e Caterina, perché li chiami così”

“È tanto tempo ormai che li conosco, chi si ricorda? forse li ho chiamati così quando ero bambina, perché lo vuoi sapere?”

“È il mio mestiere, sono un poeta archeologo.”

“Vuoi dire come Indiana Jones?” Chiede lei interessata.

“Non proprio, quello scava nella terra mentre un poeta archeologo scava nel linguaggio, il principio è lo stesso, in fondo alle parole ci sono cimiteri sepolti e si trovano molte ossa poi con quelle ossa bisogna imbastire delle storie che reggano un filo per capire come è andata. Pietro e Caterina sono una favola russa, la leggenda della lavandaia che diventa zarina, qualcosa del genere di Cenerentola, poi c’è il negro dello zar e Otello e la gelosia ma questo… che ci fai in acqua a quest’ora? dev’essere fredda.”

Lei si spinge in avanti e risponde: “Io sono la sirena e sono di fuoco, non lo sento il freddo.”

“Una sirena?...ho sempre sognato di incontrarne una, fammi vedere la coda.”

“Te lo puoi sognare…”Mormora lei languida, poi riprende spigliata: “Come ti chiami?”

“Pietro.”

“Guarda che combinazione…ed io Caterina, sono al secondo anno di psicologia all’università di Napoli, sto seguendo un corso di mitologia e quello che hai detto…che ci fai qui?”

“Non so ancora con precisione, ho preso alloggio nel villaggio qui vicino, un posto strano…sono venuto per studiare i terroni.”

Lei si rabbuia e si spinge nuovamente indietro: “Quali terroni? Lo sapevo che sei un leghista.”

“Quale leghista? Sono di Torino dove i tre quarti della popolazione hanno origini meridionali, soprattutto della Campania, li non si sentono perché oramai gli emigrati sono vecchi o morti ed i figli parlano come me, qui ci deve essere un capitolo della storia che cerco. Nella favola si vedono andate e ritorni, ad esempio dopo la guerra con gli apuani i romani trasferirono i cavatori della Lunigiana a scavare nelle Latomie di Siracusa. Quei minatori dovevano essere tutti sporchi di terra, erano schiavi e forse li chiamavano terroni e probabilmente furono i loro discendenti a trasmettere la parola. Qualcosa del genere deve essere avvenuto anche tra Napoli e Torino, la storia segue le legioni di Giulio Cesare ed i castri che vennero formati con quei soldati.”

“Interessante….” Mormora lei riavvicinandosi. “Ti serve un assistente?”

“Non proprio, però cercavo una sirena. Che ci fai lì, vieni su, così ti vedo la coda…ho conosciuto una campana, era bugiarda come…lo sei anche tu?”

“Sto bene dove sto e la coda non te la faccio vedere, mi hai presa per un osso da farci una storia?”

“Perché no? La sirena è un essere dalle due nature, mezza donna e mezza pesce,  la figura che viene fuori si può applicare a tutto ciò che possiede due nature come il Minotauro o i centauri, l’ermafrodito e tra i tanti anche Gesù Cristo, da qui alla favola di Caterina e Pietro, la madonna che partorisce il figlio di dio, quindi lo spirito santo e la tela di Aracne con la serie dei figli di dio tramandate dal mito, tutte ossa di morti che stanno in fondo al linguaggio, anche tu…potresti non avere la coda di sirena ma avere due nature lo stesso.”

“Vuoi dire che sono una morta?” Chiede preoccupata.

“Se hai due nature mezza viva e mezza morta, se vuoi si può fare la prova per accertarlo, i morti ubbidiscono a stimoli e se richiamati vengono fuori, se fai psicologia dovresti conoscere i riflessi condizionati di Pavlov.”

Caterina si rabbuia, rimane qualche secondo a sbracciare pensosa nell’acqua e dice: “Sono una sirena…forse, ma non sono morta, facciamo la prova, sono proprio curiosa.”

“È facile, c’è l’hai il fidanzato? Bella come sei chissà quanti…”

Arrossisce leggermente e con voce non molto convinta risponde: “Certo che ce l’ho, ci sposiamo tra un mese e gli sono anche fedele!”

“Storie, chissà che starà facendo in questo momento, devi essere senz’altro cornuta!”

Pronuncio cornuta marcando la parola, lei avvampa e minacciandomi col pugno levato si lancia a insultarmi in schietto napoletano di tutte le peggiori maledizioni che ci si possa immaginare, poi infuriata si volta e si allontana, dopo qualche metro si ferma e torna indietro, ancora fremente di rabbia dice: “ Forse ho capito che vuoi dire…hai detto che stai al villaggio…se cercavi i morti sei capitato nel posto giusto…forse ci vedremo ancora…”

Si allontana rapidamente nuotando a rana, nell’ultimo tratto solleva le gambe dall’acqua, due splendide gambe tornite da ballerina, per un attimo unisce i piedi a coda di pesce a mo’ di saluto poi scompare dietro il capo della baia. Il sole è tramontato, il cielo è ancora rosso e volge alla sera, all’orizzonte si vedono addensarsi grossi nuvoloni neri e le onde del mare stanno accelerando. Mentre rimetto i pantaloni Pietro e Caterina riprendono a tintinnare, la musica si affievolisce lentamente mentre a piedi nudi rientro Alla Mona. Nel villaggio qualche finestra si è schiodata, si intuisce una vita latente, sotterranea, notturna ma in giro non si vede ancora nessuno.

Ad un tavolo ci sono due minatori che cenano, le tute nere e sudice, non si sono neppure lavati le mani, i pezzi di pane sulla tovaglia di carta sono neri, macchie da tutte le parti. Stanno parlando concitatamente in dialetto, al mio ingresso zittiscono e per qualche secondo mi fissano sospettosi studiandomi accuratamente, hanno occhi cerulei che spiccano sul nero della pelle e sono alti e robusti, poi riprendono a mangiare in fretta. Al bancone non c’è nessuno, il tempo di sedermi ad un tavolo vicino ad una finestra ed i minatori si alzano, uno si fruga in una tasca e tira fuori una manciata di sassolini anneriti, li scorre con un dito tenendoli nel palmo poi ne sceglie uno e lo butta con noncuranza tra gli avanzi nel suo piatto, senza guardarmi escono.

Passa un minuto ed arriva l’ostessa, si è acconciata i capelli a cascata d’oro e ravvivato il rossetto ed il trucco, indossa un tubino nero aderente aperto sul seno, calze dello stesso colore e scarpe dorate coi tacchi mentre corre a passettini verso il tavolo lasciato dai minatori. Dice: “Sti disgraziati, avranno pagato?”

Guarda sul tavolo e trova il sasso nel piatto, lo solleva con una salvietta di carta, lo pulisce in fretta poi lo stringe in pugno con espressione soddisfatta e torna al bancone. In quel momento mi vede.

“Oh, è già qui…” dice,  “Quei due, li ha visti, sporcano dappertutto, quello che toccano è sempre…ma lei non si preoccupi, in cucina non li faccio entrare, vedrà…le ho preparato una cenetta.”

Parla in italiano con un forte accento napoletano, si sente che non è abituata ma ci vuole pazienza, sembra un film con Totò. Rispondo: “Non si preoccupi per me, sono abituato a tutto. Ho una fame da tigre, che c’è di buono?”

Lei, alzando il pugno che stringe il sassolino risponde: “Una bella insalata di mare, poi spaghetti con le vongole e poi una mia specialità, non glielo dico, una sorpresa.”

“Va bene, porti”

“Che ci diamo del lei?...facimmo come a casa…se no non mi trovo…”

“Si può fare meglio, non hai nessuno che t’aiuta qui, una bella donna come te…un marito, che so…”

Si drizza gonfiando le tette nell’abito e balbettando dice: “Adesso, fuori stagione, faccio da me…mio marito, lui…adesso non c’è, fa il rappresentante, torna tra…” Mi guarda soppesando il tempo e continua: “due settimane, adesso è in Svizzera.”

“In tal caso ti posso invitare, vuoi cenare con me?”

“Io…non so, se arrivano altri clienti?”

“In tal caso li vai a servire, che problema c’è?”

“Non so…ti ho già conosciuto da qualche parte ma non ricordo, mi sembra…paura ma anche, non so se faccio bene ad avvicinarmi, c’è qualcosa che mi tira e poi…”

“Quante storie, è solo una cena, così parliamo, ci sono molte cose che mi incuriosiscono di questo posto.”

“Solo la cena però, io sono sposata, sapessi qui cosa dicono…”

“Una taverna di porto, cosa possono dire? Sono nato a Torino e sono cresciuto in mezzo ai terroni, mio padre era toscano e da bambino mi son preso del napuli più di una volta e sempre da figli di emigrati meridionali, è una mentalità apparente che si adatta, sono solo parole. Non ci siamo ancora presentati, mi chiamo Pietro.”

L’ostessa si è rabbuiata, farfuglia: “Napuli, terroni…qui devi fare attenzione a come parli…” Accarezza con un dito il pugnale appeso alla catenina e continua: “si fa in fretta a scapparci il morto…al nord forse siete emancipati ma qua…”

“Facimmo come a casa…” le dico ridendo,  “senza dar peso alle parole, con me si usa così. Una volta ho giocato alla passatella con dei meridionali accaniti e mi sono divertito un sacco, con le parole si possono portare a spasso dove si vuole e questa è una debolezza.”

Ride anche lei: “Va be’…tanto stasera non aspettavo nessuno, se non c’eri tu chiudevo e avrei passato la notte davanti alla televisione, facciamo festa…il mio nome l’ho dimenticato ma qua tutti mi chiamano la Mona.”

“Un bel nome. Ho sentito tanto decantare i vini di questa zona, ne hai qualcuno fatto con l’uva?”

“Forse in cantina qualcosa c’è, l’olio ed il vino buono non me lo faccio mancare.”

Porta in tavola ed inizia la passatella, l’insalata di mare, il profumo del prezzemolo, il vino rosato appanna i bicchieri, il profumo della Mona e sotto un altro profumo invisibile molto eccitante. Le chiedo dei minatori.”

“Gente strana…” dice lei “se non ci fossero loro chiuderei…una volta qui il paese era disabitato poi è venuta fuori la storia del tesoro del Barbarossa e sono arrivati , hanno cominciato a scavare e non si sono più fermati.”

“Il tesoro lo hanno trovato?”

“E che ne saccio?”

“Quella pietra che hanno lasciato cos’era?”

Lei arrossisce, rimane un attimo a pensare e risponde: “Oh…quella, un ricordino, faccio la collezione di sassi, quando ne trovano uno bello…”

Alle bugie delle campane sono abituato, tra me calcolo che se mi hanno fatto vedere deve esserci un motivo. Sorvolo e continuo: “Neri come sono spaleranno carbone comunque non sono affari miei, il tesoro del Barbarossa, il miraggio dell’oro, l’oro di Napoli…questa zona è ricca di leggende, sono un appassionato del mito, probabilmente il Barbarossa non è mai esistito, questa favola si ripete, anche Attila ed Alarico seppellirono tesori e conoscendo l’avidità di certa gente dubito che queste storie siano vere.”

“Voce di popolo, ” continua lei allusiva,  “qualcosa di vero c’è sempre, che mestiere fai? Sarai mica uno sbirro…”

“Sono un semplice poeta.”

“Oh, a me piace, dimmene una.”

L’ebbrezza del vino, ho avvicinato una gamba alla sua e lei l’ha tolta e rimessa subito, eccitante, le parole volano, luci soffuse, una candela, o forse una fiamma…si sente la terra tremare, il Vesuvio si scrolla, l’eruzione, l’erezione… “Al momento non mi viene, prima, in una spiaggetta qui vicino ho incontrato una sirena.”

La Mona toglie la gamba e con voce leggermente allarmata chiede: “Una sirena? Era mora, giovane?…”

“Proprio così.”

“Quella sfacciata, la conosco, una matta, una tarantolata. Abita a Sorrento, sono una banda che arriva fino a Napoli, ogni tanto vengono qui a fare le feste, anche le sedute spiritiche fanno, su alla pieve…”

“Nessuno si lamenta?”

“E chi? Danni non ne hanno ancora fatti e qui pagano…però la gente…e che cosa avete fatto? Aspetta, è finito, vado a prendere gli spaghetti.”

Torna, mi scodella gli spaghetti sistemandoci sopra le vongole col guscio nel disegno di un cuore, si riempie il piatto e riprendiamo il discorso. Sotto il tavolo stringe un mio piede tra i suoi punzecchiandolo coi tacchi, sopra chiede: “Allora, che cosa ti ha detto quella smorfiosa?”

 Le stringo i piedi tra i miei tenendoli fermi e rispondo: “Abbiamo parlato di cornute.”

Ritira i piedi, s’arrossa, stringe con una mano il pugnale alla catenina ed esclama: “Insomma, mi stai prendendo in giro?...a me fammi quello che vuoi, ma questo…”

Le riprendo i piedi e tenendoli stretti rispondo. “Ci deve essere un motivo se basta una parola per…odori di femmina da far girare la testa, facciamo in fretta, poi ci chiudiamo in camera con una bella scorta di pasticcini e vino buono e ci diamo fino a non poterne più!”

Lei cerca di togliere i piedi, li stringo ancora più forte e strilla: “Ahi, mi fai male, cosa sono queste confidenze?”

“Hai detto tu facimmo come a casa.”

“Va be’, son cose che si dicono, sono una donna sposata, una cosa seria.”

“Parole…ci sono un sacco di fili che legano Napoli a Torino, ad esempio l’agnello di dio, il Masaniello che solleva la plebe e gli Agnelli della Fiat che sono stati tutti sgozzati dopo aver sollevato i terroni e poi c’è il fatto della cornuta che qui sembra fare imbestialire tutte, a essere cornute sono le vacche che di solito se la fanno con i tori ed anche i tori sono cornuti, toro potrebbe stare per Torino, in questo caso un torinese cornuto.”

“Va bene, ” dice lei rilassandosi,  “senza dar peso alle parole intanto la gelosia c’è e altrimenti, pensa un po’…sarebbe senza sugo…però dopo…”

“Dopo…che ti importa? Tanto so già che farai, i poeti vedono le cose prima del tempo, sono probabilità…gli scavi di Pompei hanno riportato alla luce i vecchi miti, questi miti dicono che provengono dalla Grecia ma si trovano anche in Giappone, in Cina ed in Africa e… possono essersi sviluppati  indipendentemente dalla Grecia ed essere esclusivamente italiani, questo significa che non c’è mai stata nessuna Magna Grecia ed è tutta una cosa in famiglia, facimmo come a casa…la cornuta, la vacca, la doppia natura che c’è in ogni donna, la madonna vergine ed il re dei giuda, guarda caso la figura di Cristo, un uomo, un ermafrodito…tu potresti essere la maga Circe e quei minatori zozzi tuoi spasimanti che hai adescato e poi con qualche pozione magica trasformati in schiavi a scavare la montagna come Circe trasformava gli uomini in porci…non ho nessuna intenzione di diventare negro a spalare carbone e neppure un maiale!”

“Ti farei altro che maiale…”ribatte lei con foga,  “se questo è il tuo modo di fare la corte alle ragazze…ti sembro un uomo?”

Riempio i bicchieri, facciamo un brindisi e continuo: “Profumi di femmina… quello che hai nella testa è un’altra cosa…il toro cornuto…giochiamo, potrei interpretare Ulisse ed innamorarti perdutamente, oppure come Didone con Enea, si dice che i troiani erano tirreni…forse terroni, un suicidio per amore…oppure Arianna abbandonata da Teseo che poi se la fa con il figlio di un dio…storie che si ripetono e potrebbero ripetersi, ci deve essere un motivo, la gelosia…”

“Ebbene?...come sarebbe senza?”

“Non sono discorsi che si possono fare ad una schiava che non vede la libertà. Per i terroni, la vergogna di essere terroni ci deve essere stato un fatto ha che trasferito la vergogna nella mentalità e doveva provenire dal nord ma qualsiasi cosa sia stata quei terroni sono morti e per il resto basta non dar peso alla parola, per quel che riguarda la vacca cornuta…o il torinese cornuto…l’autore ha idee grandiose ma per il momento…te la leccherei da farle prendere fuoco e poi te la sbatterei a picconate fino a farla scoppiare…”

“Lei ride imbarazzata gonfiando i capezzoli, allarga i piedi per stringere i miei, fa il gesto di alzarsi per abbracciarmi poi si trattiene, diventa rossa e dice: “Sembra che hai già capito tutto, allora dovresti aver capito anche l’inferno!”

Attorciglio gli ultimi spaghetti nel piatto e rispondo: “Una vacanza…tanto ci sarà qualcosa che ci interromperà sul più bello e potrai salvarti in…corner, per restare nell’argomento. Il problema della vergogna sta nella lingua, l’orgoglio dei napoletani, un branco di citrulli che si commuove alle lacrime delle attrici. Quando scrivo trovo spesso problemi a far scorrere gli essi e gli esse dei congiuntivi con la musicalità della frase, se dovessi lavorare con gli immo e gli accio del dialetto napoletano impazzirei, checché se ne dica lo trovo un linguaggio tutt’altro che musicale, potrebbe star bene in un museo di anticaglie come quelli che piacciono ai leghisti…ma questo riguarda il mio gusto ed è soggettivo, ognuno è libero di pensarla come gli pare, un fatto è che a Torino, anche se solo in apparenza, hanno ucciso la poesia, non c’è musica, non c’è arte, c’è solo il cottolengo e tanti ospedali mentre qui si vede ancora qualche fermento…queste tarantolate…m’ispirano i cortei di Dioniso e le feste dell’uva, il vino che scorre a fiumi, il sangue…mmm…sei così bella che…”  

 

È probabile che prima di prendere fuoco si senta caldo, si indovina qualcosa di invisibile dentro di lei che mentre mi guarda fa cose indicibili, qualcosa che comunque tappa e se si aprisse scoppierebbe a vulcano.

Si alza di scatto e con voce trafelata dice: “Aspetta, è finito, vado a prendere il resto, ho fatto…”

Le riprendo la mano e me la siedo in braccio. Il suo corpo elettrizzato si plasma sul mio aderendo come se ci fosse un “incastro” naturale. Continuo per lei: “La solita pizza napoletana che comincia che bella cosa na jurnata di sole, facciamo una pausa, ormai la presentazione è finita, possiamo lasciar correre la fantasia.”

“Cosa vorresti fare?” chiede lei civetta mordicchiandomi un lobo a respiro rovente.”

“Nella realtà ti cuocerei a puntino e poi ti farei inginocchiare a succhiarmelo a sangue e poi…si vede che anche il poi verrebbe bene ma qui non siamo nella realtà, è una favola, sono solo parole, le parole non hanno cazzo e non hanno figa, non hanno neppure un corpo fisico, sono invisibili, si possono solo sentire o leggere. Sganciamoci dalla banalità, facciamo qualcosa di nuovo.”

“Quel che vorrei…è…”

“Liberiamo la parola, il tuo corpo, il mio, il non potere, il corpo diventa parola, una pietra ne maschio ne femmina e la parola si sdoppia nell’immaginazione in due corpi che scopano come matti che nella realtà sono uno, un ermafrodito impotente che passa la vita a masturbarsi.”

Lei mi lecca le labbra e sussurra: “Proprio così, l’inferno…”

“Allora improvvisiamo, togliamo il corpo alla parola e lasciamola volare libera, l’idea, adesso siamo due cornuti, un toro ed una vacca, strusciamoci le corna.”

“Come si fa?”

“Ti devo insegnare a fare la vacca?”

Iniziamo col prenderci a testate voluttuose, poi le corna battono tra loro, carezze, sfrigolii,  scintille, lampi, rimbombano i tuoni, scrosciare di fuoco…

“Eccitante, ” mormora lei.

“Fai un bel muggito, profondo.”

“Muuu!...adesso facciamo la monta, quanto ce l’hai grosso?”

“Quanta fretta, prima baciamoci, tira fuori la lingua.”

Esce una lunga lingua tutta irta di peli neri fitti come un prato senza fiori.

La Mona si irrigidisce e dice: “Lo sapevo, anche allora…prima incanti e poi accoltelli!”

“Perché dici così, noi siamo parole, la trovo un’ idea originale, nessuna cuoca ha mai pensato di servire peli sulla lingua di una vacca ad un torinese cornuto.”

Mi abbraccia e con la voce da bambina piagnucola: “Non lo sapevo di aver tutti quei peli.”

“Quale pelo ha parlato? sono tutte bugie, delle scuse. È una figura interessante.”

Allungo la lingua come fanno i tori, l’avviluppo intorno ai peli e li strappo tutti con un colpo secco per ficcarmeli in gola. Il rumine si mette in funzione.

Ora dalla lingua esce una cascata di sangue ma non è sangue vero, sono le parole che stavano sotto, comunque altre parole.

“L’inferno…” mormora lei.

“Chiamalo come vuoi, a me sembra un’idea cretina, almeno…si vede un piccolo borghese cretino, un idiota o meglio uno standard, si vede anche un marito crocefisso e poi la vendetta, cornuti da tutte le parti, una vergine con tanti bambini che non hanno padre, coltellate, tradimenti e continua ma comunque sono sempre parole, immaginazione, niente di più.”

“L’inferno…”

“Una parola che prende corpo, sono tutte parole.”

“Son parole anche le tue, come sarebbe diversamente?”

Si sente il ruggito di una tigre, terrore, la corsa spietata alla preda, le fauci che si stringono sul collo, il sangue, la vita…

“Muuu…” geme lei,  “chi fa il predatore?”

“Che importanza ha? Un grande panettone di carne dove tuffarsi a casaccio, la giungla inesplorata sempre a caccia, la libertà.”

Il toro e la vacca sono diventati due tigri e le parole continuano: “C’è qualcosa che non va giù, punge, un pugnale nel cuore di una bambina, sembra una storia cretina ma a quell’età si può capire, il pugnale è solo una parola, un sogno ma la bambina crede che sia vero, una figura standard, ricorda la favola di Carmen, una zingara spagnola, forse è per questo che le tarantolate si vestono tutte come zingare.”

“Siamo tutte tarantolate da queste parti.”

Le strappo l’abito sul seno liberandole le tette, sfilo il reggiseno ed addento un capezzolo gonfio come sarebbe se… continuo: “Tutte morsicate, morte, un pungiglione acuminato che trafigge il cuore e forse fa da tappo, la figura del Vesuvio, se si toglie il tappo esplode ed ecco la tarantolata, la cornuta gelosa e tutto per una favola cretina che si crede sia vera. Il coltello della gelosia di Carmen, il delitto d’onore che viene continuamente ridondato dalla pubblicità dei media.”

“Non è più come una volta,  “dice lei attenta,  “molte cose sono cambiate.”

“Quando quella bambina era viva c’erano ancora, forse ti sei dimenticata, chissà quante volte hai sognato di venir accoltellata da quel torinese cornuto…”

“Ho voglia di ruggire ma mi viene solo miaooo…che ci posso fare?”

“Sono parole, la gelosia e la cornuta accoltellata dal cornuto, sei tu che ti sei accoltellata, un sogno tenuto compresso dalla vergogna di essere cornuta, di chi ti vergogni?”

“Un coltello che scava nel cuore, è sempre stato il mio sogno, quello che stai facendo ma non sento male, anzi…”

“Un coltello da estrarre comunque, adesso si vede la vergogna, quello che fa vergognare sembra essere il torinese cornuto che nel tuo sogno accoltella, questo sogno è tramandato da secoli e si rinnova ad ogni generazione, sei tu che lo sogni quindi quel torinese sei tu, un altro ermafrodito che praticamente si suicida, il condizionamento dei napoletani, la figura del Vesuvio che ciclicamente esplode. Chi è quel torinese? Si vede un accampamento di zingari, agli zingari nessuno bada, solo una zingara si può preoccupare di quel che pensano gli zingari.”

Continuo a leccare  e mordicchiarle le tette, dai capezzoli esce una bava lattiginosa dal sapore di fuoco, se si avvicina l’orecchio si sente il vulcano brontolare minaccioso nelle viscere.

“Ci vuole pazienza e molto tatto…” le sussurro,  “Se il vulcano esplode non vorrei fare la fine dell’agnello, che figura ci farebbe la tigre?”

La Mona accalorata mi abbraccia stringendomi i seni sul petto e tra le fiammate dice: “Chi se ne frega dell’agnello! Solo parole dici? Chissenefrega delle parole, adesso ti farei…”

“Resterebbe l’ermafrodito impotente che sogna, la realtà è un'altra cosa, le parole sono preziose e non vanno sprecate, comunque tutte uguali, ne bene ne male, la favola che prende corpo è tramandata e programmata a ripetersi, proviamo a scriverne un’altra e vediamo come va a finire.”

“Mmm…Chissenefrega di come va a finire…un vulcano che esplode tutte le volte che mi abbracci, in che altro modo vuoi che vada a finire?”

Si scioglie sempre più languida sbrodolando un fiume di lava ardente eruttando lapilli che esplodono tra le stelle ricadendo in una pioggia di fuoco e proprio in quel momento alla finestra si vede la piazza illuminarsi e si sentono urla e schiamazzi.

 

Mona solleva la testa e guardando i movimenti fuori dalla finestra, con tono corrucciato, dice: “Sono arrivati i pazzi, non so se essere contenta o che cosa, quello che hai detto…è vero, nella fantasia è come al cinema e gli attori fingono, nella realtà…proverò a darmi un pizzicotto.”

Accarezzandole le tette arroventate continuo: “Nella realtà di faresti tutti quelli che ti frulla, prova a vederlo senza un marito cornuto che poi ti accoltella.”

“Sarebbe questa la libertà?”

“Almeno il primo passo.”

“Mmm…mi sembrerebbe senza sugo, dovrò cambiare la parte, sembra un'altra, però…chissà? Adesso verranno per chiedere la luce e poi si metteranno a ballare, son sempre ubriachi…”

In quel momento bussano alla porta. La Mona si affaccia alla finestra con le tette scoperte e grida: “Statevi calmi, un minuto che arrivo.”

Da fuori si sente una voce maschile gridare: “Datti una mossa! Vogliamo vedere il terrone del nord, digli di venire fuori che abbiamo due paroline da dirci.”

La mona rientra e chiede: “Che è successo, che hai fatto con Caterina?”

Rispondo ridendo: “Un test di psicologia, me lo aveva detto che ci saremmo rivisti, non pensavo così in fretta.”

Mona continua: “Sta attento, quelli han tutti la mosca al naso, dicono di essere moderni ma sotto…”

Mi alzo e vado verso la porta per aprire.

“In natura c’è chi scappa e c’è chi insegue, sono abituato coi cinghiali nel bosco e quelli sono molto più grossi.” le dico mentre sale le scale.

Lei, coprendosi con una mano i seni morsicati strilla: “Aspetta, vado a cambiarmi!”

Apro la porta. Nella piazza c’è un sacco di gente vestita variopinta con tanti svolazzi, figure ancora indistinte illuminate da lampade cinesi a palloncino che fluttuano nella aria come fuochi fatui tenute legate con dei cordini. Di fronte ci sono tre ragazzi giovani sui vent’anni o poco più, vestiti con costumi d’epoca, scarpe lucide, braghe attillate, camicie abbondanti coi pizzi e giacchette senza maniche, i colori a tavolozza. I due ai lati tengono le chitarre sulle spalle come clave, quello al centro, alto sul metro e ottanta, bruno con occhi nerissimi e molto bello, con tono spavaldo come ho visto molte volte fare ai napoletani di Torino per nascondere la timidezza, parlando in italiano con l’accento campano chiede: “Sei tu che hai dato della cornuta a Caterina?”

Tutta la piazza tace in attesa della risposta. Evidentemente la passatella è un’usanza radicata, prima bisogna fare le dichiarazioni, come nel bridge. Dico: “Sì, ho detto proprio così.”

Tutta la piazza ride. Il ragazzo mi viene incontro porgendomi la mano e continua. “Quando Caterina ci ha raccontato la storia siamo scoppiati a ridere, non c’eravamo mai divertiti così tanto. Ci ha raccontato tutto e poi abbiamo discusso, ha detto che sei un poeta, ti volevamo conoscere e abbiamo organizzato una festa, saremmo felici se volessi partecipare.”

Ricambio la stretta di mano, ci presentiamo, dice di chiamarsi Guappo, si avvicinano altri, stringo altre mani, sono tutti giovani, maschi e femmine, i costumi variopinti, sembra di essere a carnevale in mezzo alle maschere, pacche, risate poi dico: “Gliel’ ho detto apposta, sapevo che la cosa vi avrebbe divertito, l’ho fatto per attirarvi, ho un idea e sa la cosa vi piace potremmo provare a realizzarla.”

Da una parte vedo la Mona uscire con una bobina di filo elettrico, alcuni dei festaioli si avvicinano collegando un filo, si accendono altre luci, dall’altra arriva Caterina con un abito da zingara gitana, la gonna lunga con numerosi tagli che le scoprono le gambe mentre cammina ed una camicia a pizzi aperta sul petto insieme ad una ragazza vestita su per giù nello stesso modo che riconosco subito essere la guida giapponese incontrata sul traghetto ed un nero africano alto un paio di metri, muscoloso e flessuoso come un ballerino, il viso femmineo con gli occhi truccati ed i capelli ricci tinti di biondo, vestito con una giubba verde ed il gonnellino alle ginocchia. Il nerone porta sulle spalle un grosso tronco cavo completamente ricoperto di sonagli.

Caterina si avvicina e  con aria interrogativa chiede: “Spero che non te la sarai presa per quello che ti ho detto…che stupida, tu lo sapevi già che avrei reagito così, in che altro modo ti saresti potuto presentare alla tua sirena?”

Guappo la guarda torvo e le chiede: “Che sono sti discorsi sdolcinati?”

Caterina lo fulmina con uno sguardo, si avvicina al nerone e ribatte: “Tu che vuoi? Fatti gli affari tuoi!”

Guappo la guarda muto per qualche secondo poi alza una spalla crucciato e si rivolge a me: “Lo sapevi già…quale sarebbe questa idea?”

Nella piazza numerosi ragazzi si stanno disponendo intorno alla fontana del puttino alato sistemando strumenti musicali e percussioni, altri ballerini provano delle figure, tutti in silenzio ad ascoltare. Su un tavolo  c’è una capace botticella da cui si sente provenire un intenso profumo di sangria con dei vassoi colmi di panini e pasticcini. Qualcuno attinge dalla botte con un mestolo riempiendo bicchieri.

Rispondo: “Vedo che l’idea ha già cominciato a fruttare però prima bisogna chiarire una cosa perché qui a Napoli i poeti fan tutti una brutta fine. Ci sono Virgilio, Nerone e Lorenzo il Magnifico e poi Leopardi, da cui sono tratti i testi di tutte quelle lagne che chiamate canzoni napoletane e sono tutti morti male dopo aver visto Napoli. La poesia non è il poeta, è una atmosfera, un pathos che si sente così come le parole  si possono solo ascoltare e non ha niente a vedere con il poeta che invece è un corpo in carne ed ossa. Comunque anche questo rientra nell’idea, voglio realizzare una storia dove le parole sono rappresentate dalla musica e dalle danze.”

Guappo chiede: “Si potrebbe fare, l’hai già scritta la storia?”

“No, la voglio improvvisare, niente partiture, così come farete voi con musica e danze, faremo a giornate come lo Cuntodelicunti di Basile, la storia si imposta e poi va da sé.”

“Improvvisare?” dice Caterina interessata,  “Ma come si fa se non conosciamo la storia?”

“Le storie ci sono già e le conosciamo bene, prendiamo ad esempio un libro famoso come il signore degli anelli di Tolkien, qualsiasi figura si tragga, la guerra tra bene e male, l’anello del potere che rende invisibile, la foresta che cammina eccetera si trova già esposta nel mito, con questo non voglio dire che Tolkien abbia copiato, dopo anni che scrivo libri sono arrivato alla conclusione che tutte le idee con cui si può impostare una storia esistono già e sono espresse nel mito, le figure non cambiano, vengono semplicemente rivestite con nuove parole, come un programma inserito in un computer ripete sempre le stesse cose, quindi attingeremo direttamente dal mito che conosciamo tutti e poi cercheremo di interpretarlo a modo nostro.”

“Spiegati meglio.” Dice Guappo, anche lui interessato.

“Non è difficile, all’inizio dirò il mito da realizzare ed il modo di farlo, poi…la musica dovrà rappresentare le scene e le danze figureranno il resto, cominceremo dalla sirenetta sullo scoglio che aspetta…”

“Questo è già avvenuto e c’eri tu sullo scoglio!” strilla Caterina.”

“Allora scordati chi stavi aspettando prima perché quello che è arrivato è tutta un’altra cosa!” le ribatto. “Quello che insceniamo stasera, la sirenetta sullo scoglio è Nausicaa sull’isola dei Feaci che aspetta il ritorno di Ulisse, Ulisse poi racconta le storie, era un cantastorie, un poeta, quindi Nausicaa è la Sirenetta che aspetta la poesia ed invece di un naufrago arriva un’aquila che poi la violenta. La musica farà l’acqua, la risacca, ogni tre battute da quattro quarti segnerà lo schiaffo delle onde sullo scoglio, poi i sospiri della sirenetta ed il suo cuore che batte di paura quando vede arrivare l’aquila con le onde che accelerano alla tempesta, i ballerini saranno le onde e la schiuma del mare e le ali dell’aquila quando arriva e poi…lo dirò quando sarà il momento.”

Guappo interroga con lo sguardo la compagnia e visto l’assenso e la curiosità generale si rivolge a me e con una punta di invidia  negli occhi dice: “La cosa si può fare, chi interpreterà Ulisse, cioè la poesia?”

“Visto che parli per tutti potresti farlo tu.”

“Allora va bene.”

Caterina interviene avvicinandosi: “Come sarebbe? sei tu il poeta.”

“Allora non hai capito, il poeta non è la poesia, cerca di vedere la cosa sopra le righe altrimenti non ne può venir fuori niente.”

Lei rimane qualche secondo a pensare e dice: “Vuoi dire…non è il poeta che violenta la sirena, è la poesia e quella chiunque può dirla…allora va bene, ci sto anch’io, son proprio curiosa.”

La piazza esplode in un applauso con strilli e volteggi di ballerine. Al sopire dico: “Allora sistemate le cose, inizieremo dallo scoglio, appena siete pronti partiamo.”

Si allontanano tutti meno la guida giapponese che si avvicina timidamente si presenta e dice: “Ciao…sono la Bastarda, è il mio nome di guerra…noi ci siamo visti stamattina sul traghetto, non so perché ma quando Caterina ha raccontato la storia ho capito subito che dovevi essere tu, avevi un’ aria così strana, sembrava che venissi da un altro pianeta, ti ricordi di me?”

“Come si potrebbe dimenticare una ragazza così bella. La tua voce sembrava musica che il sole ed il mare accompagnavano con le loro chitarre…”

Lei arrossisce e continua: “Adulatore…tutti così gli italiani, poi però si tirano sempre indietro perché sono…non so neppure io che cosa sono, mio padre è italiano e mia madre giapponese ed io non sono ne uno ne l’altro, quel discorso sulle due nature che hai fatto a Caterina credi che si possa applicare anche a me?”

“Le due nature sono nella mentalità, dipende da chi ti credi di essere delle due, cercheremo la risposta nella storia.”

“Una sirena…mi piace ballare e mi piace la poesia, i poeti non so, non ho mai sentito nessuno parlare come te, sono proprio curiosa. Sono nata a Napoli e per vivere faccio l’interprete ai turisti giapponesi…” Si avvicina e con voce più spigliata, con aria complice continua: “I giapponesi sono…non riesco proprio a capirli, anche mia madre…non riesco proprio a…come dire, sentirmi giapponese, gli uomini poi, sembrano tutti cagnolini, le donne se li portano a spasso tenendoli al guinzaglio, non riuscirei mai ad amare degli uomini così sottomessi…”

Si interrompe, dietro di lei è comparso un giapponese, quello che sul traghetto fotografava i gabbiani, si vede chiaramente che ha sentito tutto, la guarda a bocca aperta con aria sbalordita e la Bastarda sprizza a ridere e dice: “Le presento mio zio, è un poeta anche lui, adesso vado a prepararmi, tenetevi compagnia, tra matusa dovreste intendervi.”

Detto questo corre verso la compagnia svolazzando a saltelli da ballerina.

 

     Il vero  mostro  è  il  poeta. 


Il giapponese mi guarda con una luce piccata negli occhi e dice d’impulso, come per scusarsi:      
  “I giovani di oggi proprio non li capisco.” Accenna un inchino per presentarsi, si irrigidisce, guarda verso la Bastarda che si allontana, borbotta qualcosa tra i denti e stando ritto mi porge la mano.

È vestito con mocassini, jeans, camicia bianca sbottonata sul collo, giacca di flanella grigia, l’aspetto solido, alla mia altezza, il viso piacevole, gli occhi intelligenti, i capelli tirati all’indietro leggermente brizzolati sulle tempie. In tono ironico dice: “Piacere, mi chiamo Macaco, vengo spesso in Italia per lavoro, ho imparato la lingua basandomi sull’inglese e con i verbi non vado oltre la seconda persona però quando vengo a Napoli non capisco una parola e per comunicare ho bisogno di mia nipote. Non vorrei disturbare ma sono molto interessato a quello che hai detto sulle idee incise nel mito.”

Ricambio la stretta e rispondo: “Nessun disturbo, nel canone mai nulla appare a caso.”

Lui ribatte: “Questo l’ho capito e comunque son solo parole.”  Aggiunge una punta di invidia negli occhi e continua: “Se volevi conquistarla non potevi fare meglio…la tua voce, una musica accompagnata dalle chitarre del sole e del mare…in Giappone nella poesia si dà più importanza alla musicalità della voce che ai significati delle parole e lei il latte lo ha bevuto da sua madre…adesso non te la toglierai più di torno.”

“Potrebbe essere piacevole…tante volte mi sono detto che devo fare attenzione a come parlo, se fosse stata brutta e racchia non le avrei mai detto una cosa simile, ci deve essere qualcosa che di fronte alla bellezza accende la poesia…si crede che i poeti siano chissà che cosa, i veri poeti non hanno alcuna difficoltà a mettere su una bella frase, è mestiere e poi ci si trova a risolvere questioni che non si sa come venirne a capo. Comunque abbiamo centrato l’argomento.”

Sento due tette sode premermi il braccio e  Mona rivestita a nuovo venir fuori ridendo: “A capo di o’ cornuto…” dice, poi: “Hai fatto un bel guaio, con le parole la daresti a vendere ai sassi. Che fate lì in piedi? vieni ad aiutarmi che portiamo fuori un tavolo e le sedie così ti servo il resto. In questa storia c’è una parte anche per me?”

“Perché no? Ti andrebbe la malafemmena?”

Lei arrossisce e risponde: “Lo sapevo che avresti detto così…ti sembro così male?”

“Una pioggia d’oro che gonfia il fiume dei desideri…” declama Macaco guardandola ammirato.

Mona lo fissa sorpresa e sbotta: “Che ti metti a sfottere anche tu adesso? Venite ad aiutarmi.”

Portiamo fuori tavolo e sedie sistemandole davanti alla porta, Mona aggiunge vassoi con ostriche ed altri frutti di mare preparati in vari modi, qualche pagnotta, piatti, posate bicchieri, una caraffa appannata piena di vino bianco e si siede con noi.

Un brindisi, un assaggio ed inizia il dibattito. “Il canone ha sviluppato diverse figure interessanti, la storia è stata impostata, lo svolgimento è registrato nel mito e si vede che va a finire male per il poeta, si vede che viene mangiato vivo da delle tarantolate.”

Macaco continua: “La bastarda me ne ha parlato, le morsicate dal ragno, a me sembra un modo qualsiasi per chiamare la pazzia delle donne, ogni tanto vanno in escandescenze e non si capisce perché, non succede solo a Napoli.”

“Qui è diverso, ” dice Mona,  “A Napoli abbiamo il Vesuvio dentro, ci teniamo tappate e quando scoppiamo…”

“Ci potrebbero essere milioni di morti…” rispondo per lei,  “questa potrebbe essere una causa per cui poi il poeta viene mangiato vivo, in questo caso sarebbe un capro espiatorio, sembra una trappola e la cosa non mi piace. Ci sono troppe coincidenze, prima hai detto che ti sembrava di avermi già conosciuto, ogni cosa sembra impostata sulle feste che organizzavo a Torino quando ero ragazzo, il tavolo con la sangria, la musica, le ballerine, la poesia, questo non può essere un caso. Forse un napoletano che ai tempi frequentava la compagnia in modo marginale che non ricordo e che poi è tornato a Napoli col mio modello e si è fatto passare per me, forse c’era anche una bambina bionda nel parco di quella villa…” concludo guardando Mona con un punto interrogativo.

“Acqua passata.” Dice lei.

“Non macina più…” prosegue Macaco,  “allora le giapponesi potrebbero avere il Fushijama dentro e se scoppiasse…meglio andare cauti.”

Apro una cozza, me la sguscio in gola e dopo averla lappata ed ingoiata dico: “Fatta la premessa possiamo continuare, si vede un villaggio abbandonato disegnato sullo schema di un castro romano con una vita sommersa di minatori anneriti di carbone e le tasche gonfie d’oro con un albergo deserto gestito da una malafemmena su una strada collegata ad un cimitero, anche questo abbandonato. Deve avere a che fare col dialetto napoletano.”

“Perché dici così?” chiede Mona,   “Cos’ha il nostro dialetto che non va? È il nostro orgoglio!”

“L’orgoglio di un branco di minchioni che vive chiuso in un ghetto in attesa che san Gennaro pisci dal cielo per poter bere gratis! A Torino ho visto chiaramente che tutti i napoletani si vergognavano del loro dialetto ed i figli si sono affrettati a cambiarlo ma dentro continuano a vergognarsi e nessuno parla volentieri delle sue origini.”

“Tu sei una bestia!” esclama Mona,  “Prima incanti e poi…”

“Sono solo parole.” Continua Macaco,  “anche la Bastarda si vergogna di me e delle sue origini e questi sono fatti, capisco cosa intendi, vanno esaminati senza giudizi.”

Mona ribatte: “Non bastano i poeti, adesso ci vogliono anche i filosofi, va bene, è così, anch’io mi vergognavo quando…e mi vergognavo solo di te…”

“Restiamo ad oggi, quel che è stato non ha importanza perché comunque la figura  è disposta in modo perfetto. Si vede un movimento, prima i piemontesi liberano Napoli dalla schiavitù dei Barboni e poi gli americani distruggono Napoli e li ripristinano ed i napoletani tornano a Torino con la vergogna nella lingua.”

“Proprio come è successo in Giappone.” Dice Macaco.

“Una storia che si ripete…” continuo,  “potrebbe aver a che vedere con Partenope, la città della sirenetta che venne distrutta dai cumani, di questa storia bisogna trarre solo la figura,  probabilmente a Partenope si parlava Italiano come nel resto del mondo con un leggero accento campano, cosa che non trovo affatto spiacevole, come parlano i napoletani oggi a Torino. Il cimitero potrebbe intendere i morti di quella città che si vedono riformati con l’aggiunta di un dialetto che li rende neri di vergogna, ci deve essere stata una fusione linguistica che ha preso la forma di un ghetto, un accampamento di zingari, un porcile di maiali allevati per fare salami, probabilmente doveva trattarsi dei Barboni, un cottolengo di matti che si credevano figli di dio intossicati dall’oppio e dominati da un falso dottore  che poi viene crocefisso per finta e resuscita ad abbindolar le maddalene…il falso dottore alias re dei giuda era anche un falso poeta, un attore, sembra la figura di Troisi…”

Mona mi guarda sorpresa e dice: “Massimo l’ho conosciuto di persona, ho visto tutti i suoi film, vuoi dire che non è morto…che sarebbe sto pastracchio?”

“È la sua figura che parla, il corpo vivo o morto non ha importanza, il cornuto alla san Giuseppe che accetta il figlio di un altro in Incominciamo da tre proprio come fa Scarpetta con l’amante di Vittorio Emanuele, la figura si trasferisce e diventa quella del figlio di un re e poi nel Postino che abbindola una tarantolata con le poesie di un altro.”

Mona scoppia a ridere e dice: “L’ho sempre detto, a Napoli son tutti cornuti e figli di puttana che si credono padreterni. Ma questo cosa centra con Massimo?”

“Al momento nulla ma non si può mai sapere con gente abituata ad aspettare che san Gennaro pisci dal cielo sangue morto che torna vivo per berselo alla garganella…”

“Qualcosa del genere di Mishima?” chiede Macaco allusivo.

“C’è una via crucis anche in Giappone ed il cristianesimo è sempre contrappuntato abilmente nei libri di Mishima, si vedono probabilità da pazzi ma per il momento sono solo probabilità, andiamo avanti. Questa storia si apre con una bella jurnata di sole non a caso poi, attirata da quella sciocchezzuola delle bottiglie che tintinnano a cin cin arriva la sirena e sullo scoglio ad attenderla c’è il poeta che dopo averla incantata la morsica facendo uscire la morta che aveva dentro. La figura si è invertita, a incantare non è la sirena, è il poeta, l’inversione è solo nominale, potrebbe intendere il poeta che si immaginava Caterina, forse un ricchione sdolcinato alla Leopardi o qualcosa del genere ed invece questo la disillude subito facendola scendere dal piedistallo dove prima credeva di stare credendosi quel poeta. L’inversione si è ricomposta ed a questo punto appare la figura del poeta con le due nature della sirena, un cacciatore che attira e trafigge a morte. Nella società preumana i poeti erano rappresentati dagli uccelli tigre, delle specie di vampiri che organizzavano la vita della tribù e si nutrivano del loro sangue, bevendolo vivo. La natura dell’uccello tigre si trasferisce nel linguaggio poetico ma la sostanza non cambia, i furbacchioni che governano questo mondo sono tutti poeti ma non si espongono usando dei prestanome, attori che recitano per loro.”

Mona si stringe con le braccia e dice: “Brrr…m’hai fatto venire la pelle d’oca, vuoi dire che sei un vampiro?”

Macaco continua: “Parole, in ogni caso questi furbacchioni non sono stati teneri con noi ed anche mio padre era un intellettuale abilmente camuffato.”  

“All’apparenza, nei fatti si vede tutt’altro, non dimenticare che nella giungla sono tutti cannibali, è stato proprio il postino che mi ha impostato a diventare uno scrittore nei primi anni di vita e poi mi ha fornito una copertura impenetrabile. Inoltre bisogna considerare che postino nei livelli sottostanti del linguaggio è recepito come re degli dei in un logica di invidia e gelosia. La figura dell’uccello tigre sembra mostruosa, in realtà si tratta di natura, sono le leggi della natura, la figura si trasferisce nel linguaggio formando gli uomini sempre sulle leggi di natura in un programma logico disegnato nel mito a cui poi viene aggiunta la legge degli ebrei e quella sciocchezzuola del peccato di Adamo ed Eva che inverte tutti i significati. La legge di natura, il cannibalismo, gli enzimi che digeriscono il sangue nello stomaco dell’uccello tigre, la conservazione della specie, si vedono ancora probabilità mostruose ma in ogni caso si tratta sempre di natura. Una volta iniziata questa storia non potrà più arrestarsi, entrerà nell’inferno come fece Orfeo alla ricerca di Euridice ed Izanagi con Izanami e poi…”

“È già iniziata a quanto pare...” Dice Mona aprendo la cozza.  
 

Al tavolo della sangria, prima si fa una bevuta, le canne girano, le braci sembrano lucciole che s’accendono e si spengono. Il gruppo si è compattato intorno, contrappuntato al profumo del vino si avverte un afrore indistinto, qualcosa di simile a quello che si sentirebbe stando in mezzo ad un branco di tigri feroci. Ricevo parecchi spintoni dalle ballerine, poi mi alitano in faccia chiedendo scusa ammiccanti.

Guappo, porgendomi un bicchiere pieno dice: “Siamo pronti, per scoglio useremo la fontana, adesso cosa facciamo?”

Svuoto la sangria e rispondo: “Un’improvvisazione, fin’ora abbiamo fatto solo parole, non so ancora se sarete in grado di realizzarla, per improvvisare il corpo si deve sciogliere nella poesia, sia essa musica o danza, ognuno deve girare come una rotella in un ingranaggio che non si cura di quel che fanno le altre rotelle e tutte insieme funzionare con precisione assoluta, affiatati si vede che lo siete ma siete anche napoletani e potreste essere solo degli sbruffoni come quelli che si vedono in tv, tutti ricchioni sdolcinati.”

Uno dei musicisti, col sassofono alzato, s’avvicina e sbotta: “Tu parli bene e poi…fa attenzione a insultare, qui non siamo ai cancelli della Fiat!”

“Delle Molinette vorrai dire, quanti ospedali ci sono a Napoli? Come si può fare arte se basta una parola per imbestialirvi? L’artista deve essere libero e libero significa che non deve essere schiavo di qualsiasi cosa, soprattutto delle parole.”

Un altro, tra i ballerini, dice: “quello che dici è vero ma gli insulti sono insulti ed a noi non ci va!”

“Perché siete schiavi! Chi vi ha detto che sono insulti? Usanze che avete bevuto al seno di quelle puttane che vi allattavano, l’artista deve essere libero altrimenti non è un artista.”

“Puttana a tua madre!” dice un altro,  “che sono sti discorsi?”

Guappo, guardandomi fisso, dice: “Tu scherzi col fuoco, a noi piacciono le persone coraggiose ma non ne approfittare.”

“Vi interessa fare questa cosa?”

“Sì!...ma…” dicono tutti.

“Allora senza ma, sapete che cos’è una fuga musicale?”

Dopo un attimo di silenzio di evidente ignoranza uno si fa avanti e dice: “Sono melodie contrappuntate intorno ad un tema centrale.”

“Esatto, allora intorno alla melodia di quello che stiamo facendo ne contrappunteremo un'altra, faremo una passatella a insulti, qualsiasi cosa venga in mente e chi si offende viene ammazzato senza pietà!”

Si solleva un brusio, voci più concitate si sovrappongono ad altre, toni alti e toni bassi si scontrano tra loro, certe zittiscono altre aumentano, alla fine se ne sentono solo più alcune quindi silenzio e Guappo dice: “Parlo per tutti ma se qualcuno non è d’accordo lo dica, forse è vero quello che dici e ci offendiamo solo per abitudine perché così fanno gli altri…questo gioco non l’avrei mai immaginato, se ci si mette d’accordo prima…è come allo stadio, potrebbe essere divertente, però…venir ammazzati senza pietà mi sembra troppo, si potrebbe fare una penitenza meno drastica? Voi che ne dite?”

“Allora facciamo che si prende un calcio in culo da chi è riuscito ad offenderlo e se non ci sta viene ammazzato.”

Guappo si guarda intorno, la curiosità è tornata generale, dice: “Tu devi avere un cazzo di cane nella testa, è una sfida, va bene, facciamo anche la passatella.”

“L’arte è sempre una sfida, una pulce contro la montagna, come quel cancherino che devi avere tra le gambe!”

Guappo ha una reazione, si trattiene, ride e ribatte: “In culo a tuo padre che t’ha cagato!”

Tutti scoppiano a ridere.

Sembrano d’accordo, al margine del gruppo c’è il nerone, ha ancora il tronco sulle spalle e tiene la testa china sul bicchiere che ha in mano. “Anche quel cazzo di negro laggiù ci sta?” gli grido.

Il nerone solleva la testa, rimane qualche secondo silenzioso facendo dondolare il tronco sulla spalla e guardandomi con sfida assente col capo.”

Il cielo sulla piazza luccica di stelle, si vedono aerei passare lampeggiando, qualcuno, solo immaginario, disegna con la scia strisce luminose con disegni di note musicali che si accordano a fiume verso un oceano di poesia, qualche meteora fugace scivola sulle onde solleticandole in spruzzi divertiti.

Caterina m’appare davanti, ha l’aria eccitata, dice: “Non mi sono mai sentita così, da quando ti ho vista sullo scoglio sono diventata un’altra, credevo che i poeti…però c’è una cosa, adesso mi sento spersa, una parte di me ha accettato la sfida ma sento un'altra che non so e quella ha paura e la cosa non mi piace.”

“Nessun problema,  se non te la senti la parte della sirena la può interpretare un’altra”

Si vedono numerose teste di ballerine sollevarsi, Caterina le previene e risponde: “Ormai la storia è cominciata e voglio andare fino in fondo, hai detto di guardare tra le righe, violentata dalla poesia, non avrei mai saputo immaginare una cosa così bella ma quella me che non so sta sanguinando e…”

Ribatto: “La madonna addolorata, quella puttana che hai tra le gambe!”

Caterina s’impenna e mi dà uno schiaffo.

Tutti gridano: “Calcio in culo, calcio in culo!”

Caterina è diventata rossa, dice: “Me lo merito proprio, mi hai già fregata una volta e ci sono cascata ancora.”

“Storie, sono solo scuse per nascondere la tua viltà, quello che c’è sotto non lo so ma lo faremo venire a galla. La storia è già iniziata e ti sei calata nella parte, un attrice che improvvisa senza copione, spontanea…adesso paga pegno.” La giro e la do un calcio in culo spingendola verso le altre ballerine.”

“Vacci piano…” interviene Guappo,  “quelle sono delicate…”

“Ti sei offeso?”

Guappo ride e tra i denti dice: “Non ancora…”

Sulle note invisibili della Cavalleria rusticana mi avvicino ai musicisti chiamandoli a raccolta: “Ehi, pezzi di merda, venite qua!”

Dal coro si levano voci: “Figlio di un cane, vieni a farci lo spazzino che abbiamo cagato in strada!”

“Dove batte tua madre? dacci l’indirizzo che l’andiamo a trovare e ce lo facciamo succhiare gratis!”

“Rotto in culo, apri quel cesso di bocca che ho voglia di pisciare…”

Un universale di parole che si specchia nella realtà dandole forma, i buoni ed i cattivi, le parole sporche, certe nere di vergogna, altre sepolte sotto la terra delle convenzioni. Forse è per questo che ci sono tante racchie… 

 

Nel villaggio qualche finestra si è aperta, ci sono minatori neri che guardano, qualcuno, negli angoli della piazza più in ombra ha messo dei tavolini e si son seduti con un fiasco a portata di mano.

I suonatori si sono disposti formando un arco a qualche metro  dalla fontana, ci sono molti strumenti a percussione di vari tipi, una batteria e poi chitarre, mandolini, il basso, un organo, un sassofono tenore ed un contralto, una tromba ed il nerone ancora in piedi col tronco sulle spalle che dondola indeciso.

Uno dice: “Non t’aspettare grandi cose, siamo abituati a suonare le tarantelle per divertirci, nessuno di noi è professionista.”

“Anche per me è la prima volta che organizzo una coreografia, un poeta per essere tale deve comprendere in sé tutte le arti e se fallissi… sarà una sfida, bisogna impostare la musica di base e poi sarà sempre quella in accelerazione progressiva fino a prendere fuoco. Restiamo nella cornice di una bella jurnata di sole, c’è il mare, il vento, il sole ecc, sapete tutti com’è, bisogna dargli la voce calcolando che non c’è onda uguale all’altra. Iniziamo con il ritmo, la batteria farà da metronomo su cui tutti si dovranno regolare, battute da quattro quarti, ogni quarto segnato dal charleston ed un colpo di rullante a fine battuta, sempre lo stesso poi ci vogliono rullatine…come dire, l’onda è andata e ritorno, avanti, poi si sbatte contro lo scoglio e indugia, torna indietro ed altre vengono avanti, bisogna sentirle, ogni strumento sarà un’onda, gli spruzzi, il vento le solletica facendole brezzolare, il volume a livello ed a turni qualcuno suonerà più forte in modo da evidenziare sempre un onda diversa marcata sopra le altre poi c’è il sole…” con la coda dell’occhio vedo il nerone in piedi ciondolare col tronco. Continuo: “Qui si potrebbe usare la voce per disegnare i suoi raggi che si riflettono rimbalzando sulle onde e gli spruzzi, il musicista non è la musica, come esempio si potrebbe usare il metodo di Lionel Hampton quando si lanciava sul vibrafono, emetteva quei suoni addominali con la voce puramente istintivi, una cosa selvaggia, proprio come la natura che dobbiamo rappresentare.”

Il nerone rimane qualche secondo a guardare le parole nell’aria, sorride e si decide. Cala il tronco facendolo scivolare sul petto dalla parte larga, indugia qualche secondo tenendolo sull’inguine come per dire: “Guardate come ce l’ho grosso!” poi lo posa a terra, da una cavità tira fuori delle aste e monta un cavalletto con sostegni di corda, ci sistema il tronco montandoci una pedaliera regolata sui sonagli e si siede davanti. Sulla parte superiore del tronco ci sono parti tonde e lisce ricoperte di pelle, le percorre con le mazze in successione dai suoni bassi agli alti, al fondo fa tintinnare i sonagli, rintocca battendo su delle lamine poste ai lati e torna nuovamente indietro rullando emettendo un suono di diaframma con la voce, sopisce il suono e ricomincia in crescendo anche con la voce variando la velocità delle rullate, si frange contro lo scoglio…la batteria inizia a marcare i quarti, tutti si mettono in moto, mentre provano passo agli strumenti: “Adesso bisogna dar voce alle onde, chi fa da solista con le chitarre?”

Si fanno avanti due con le chitarre elettriche guardandomi incantati. Me ne faccio dare una e facendo vedere dico: “Il principio è lo stesso, cominciando dalla corda di mi basso si scende al cantino suonando due note a caso per corda e arrivati allo scoglio si indugia svisando sui toni alti a capriccio e si ritorna, prima va avanti uno e poi l’altro, non affaticatevi troppo all’inizio altrimenti al fuoco non avete più le forze per scatenarvi, ogni volta i suoni dovranno variare, non c’è onda uguale all’altra, si può solo improvvisare come fa il mare, di tanto in tanto si deve vedere un gabbiano alzarsi dalle onde, allora continuate le svisatine con gli alti facendolo volare.”

Rendo la chitarra, i due si mettono subito a provare e si aggiungono alle percussioni.

“I fiati faranno il vento, c’è sempre un’andata e ritorno, bisogna scivolare sulle onde, spruzzare con loro, adesso il mare è calmo basteranno delle soffiatine, ci sono anche i sospiri della sirena e quando si alzerà la tempesta bisognerà ululare selvaggi, senza pietà, scatenarsi…”

I fiati iniziano, si alza il vento, le onde scorrono…

“Il basso giocherà con le onde sfumando i toni delle percussioni, le altre chitarre e mandolini d’accompagnamento all’inizio mi limiterei a qualche arpeggio e qualche pennata qua e là, dove vi frulla e poi…metteteci del vostro, fate cantare gli strumenti…l’organo terrà il suono di sottofondo, il movimento sarà dal mare al sole, quando ci sarà l’impennata finale alla luce bisognerà salire progressivamente in accelerazione di dodici semitoni come avviene prima di un’esplosione atomica e poi suonare altissimi nell’ottava successiva, per comodità con le chitarre direi di mantenerci sul fa maggiore così basterà scivolare sui barè. Quando ci saranno le accelerazioni vi farò segno.”

La musica inizia, sul momento si sente un po’ scoordinata ma mentre si affiata passo ai ballerini.

Guappo dice: “Pensavo che scherzassi ma vedo che fai sul serio, qui ci vorrebbe un corpo di ballo di professionisti, noi…”

“Storie, andrete benissimo, è proprio il principio delle tarantolate che dopo il morso si scatenano che bisogna esprimere. All’inizio Caterina starà sullo scoglio languida abbracciata all’amorino di pietra in attesa del poeta, i ballerini si disporranno su due ondate, una va avanti, si frange sullo scoglio e mentre torna indietro va avanti l’altra sui passi di una tarantella normale, allo scoglio gli uomini alzeranno le donne per fare la spuma e queste agiteranno i tamburelli ed i fazzoletti ed ogni volta dovrà essere diverso, quando vi alzano fate dei gridolini goduti come se ve la stessi leccando, sarà la musica più bella.”

Le ballerine esplodono in un boato di risate e strilli assentendo compatte.

“Bene, poi arrivi tu come un aquila, le acque si scompigliano e la tarantella accelera, ti metti a ballare nel mucchio facendo svenire tutte le ballerine che abbracci, la sirena ti vede e scende ed inizia a corteggiarti strusciandosi addosso e qui…” Guardo Caterina e le dico: “Deve essere una cosa animale, dagli delle spallate, fagli vedere che ci sei e che sei la più bella,  poi tirati indietro e guarda cosa fa, il poeta non si decide ed allora torni alla carica, cerca di eccitarlo, come fanno le gatte, alza la coda, sventola la gonna, apriti, fagli sentire la puzza di figa.”

Caterina alla parola impallidisce, poi avvampa e grida: “Di quale puzza vai parlando? tu sei un mostro, prima incanti e poi…”

Guappo la interrompe: “Calmati, che ha detto? Hai mai visto come fanno le gatte? È proprio così, è solo una figura, mi piace, che ti ha già morso il ragno? Se ci fai caso è proprio lo spirito della tarantella.”

Caterina lo guarda furente, poi guarda me e dice: “Violentata dalla poesia, ebbene, ho capito, andiamo avanti.”

“A questo punto il poeta viene catturato dal tuo odore e cerca di abbracciarti ma tu non gliela vuoi dare gratis, ti deve meritare, lo devi far soffrire prima ed allora ti tiri indietro e scappi, il tuo odore deve lasciare un filo come fanno i ragni ed il poeta lo segue nel labirinto che gli creerai, sarà come Teseo che segue il filo di Arianna, i ballerini faranno…”

 

 

Al tavolo della Mona che dice: “Che storia, sono proprio curiosa di vedere cosa vien fuori, li hai incantati, quando tirerai fuori il pugnale?”

“È ancora presto, il canone si evolve come una fuga musicale, ci sono diverse melodie contrappuntate e vanno prese in considerazione una per volta, è venuta fuori la figura della doppia natura del linguaggio e del nerone sole che trovo molto interessanti.”

Macaco interviene: “Ogni volta che vengo in Italia mi sembra di entrare in un altro mondo, inizio a capire mia nipote, forse ha ragione però devo farti un appunto, nelle storie ti tieni sempre la parte principale e tutte le donne per te, ti sembra giusto lasciarmi qui a fare il palo?”

“Questo l’autore lo ha preso in considerazione già da un po’, potrebbe essere una gelosia latente per i personaggi che crea identificandoli con le parti ma si sta affrettando a correggersi, poi sai come si suol dire? Mogli e buoi dei paesi tuoi.”

“Questo che significa?” ribatte Macaco,  “che dovremo tenerci anche i ricchioni?”

In quel momento, zampettando a saltelli da ballerina, arriva la Bastarda e si siede sulle cosce di Macaco, lo abbraccia poi tenendogli un braccio sulle spalle si mette a dondolare allungando le gambe come una bambina in altalena.”

“Che ci fai qui?” le chiede Macaco, visibilmente imbarazzato.

Lei risponde: “Nelle coppie avanzava una e poi…non so come dire, sono cresciuta con loro e li conosco bene, certe volte fanno paura e quando è così è meglio stare alla larga.” Mi fissa con aria crucciata e continua: “Ti sono stata vicina tutto il tempo e non mi hai degnata neppure di uno sguardo, sono infuriata!”

“Mi sembrava…” borbotta Macaco sogghignando.

“Per te avevo in mente altro.”

“E cosa?”

“Aspetta, ti divertirai…iniziamo con la doppia natura del linguaggio, tu sei un esempio ma ce ne sono altri che in qualche modo sono sempre collegati.”

Mona con un balzo felino mi salta in braccio e dondolando voluttuosa, dopo avermi leccato gli occhi, dice: “Lo so che sono solo parole ma sai com’è…in st’ incastro, come lo hai chiamato, ci sto proprio bene e così la figura viene meglio.”

“Hegel lo chiamerebbe parte dell’universale.”

“E chi è sto cazzo di Hegel?”

“Un filosofo, o meglio una logica.”

“Non parlare di filosofia con me che non ci capisco nulla.”

“L’universale è tutto il mondo e tu sei una caccherella di quel tutto.”

“Questo lo dici tu perché qui siamo solo parole ma se ti avessi tra le mani ti farei vedere che sono altro che una caccherella.”

“L’autore è ansioso di provare, nel frattempo, per ingannare l’attesa, giochiamo.”

“Tu non dici niente?” chiede la Bastarda a Macaco.

Lui risponde: “Il canone sono figure da interpretare senza emozione, come nell’I ching cinese si fan cadere i bastoncini il poeta butta le figure a caso seguendo la sua spontaneità e poi si guarda, è un gioco davvero divertente. Se si dà peso alle parole sarebbe come togliere dal mazzo dell’ I ching la metà dei bastoncini e le figure sarebbero incomplete. Guarda come sogghigna, chissà cosa ha in mente, preparati a tutto.”

Dopo aver mandato giù un paio di gamberi intinti in una salsina verde all’aglio dico: “La figura del sole nero è la prima volta che appare, il nero è opposto al bianco, due limiti nel mezzo dei quali scorre la scala dei grigi, in questo caso contrapposto al Sole c’è il pianeta Terra. La figura è ambigua, come dire, oscurata, come un sole che non brilla perché nella logica del bene e del male se uno è bene l’altro è sempre male, praticamente un nero nero, o meglio negro. Guardiamolo come sole, quello che è, il sole si dice che feconda ma nella storia si vede un musicista ermafrodito coi capelli tinti di biondo che nel seguito si chiamerà Sofia con un tronco fallico elaborato che usa come strumento, capisce subito la musica e dà il la per farla iniziare.”

“Un altro ricchione.” Dice Mona.

“Bisogna vedere lo sviluppo della storia, per il momento è quello che si vede, le figure successive l’autore le ha già viste e la gelosia potrebbe farle intendere al contrario, in realtà quando Caterina scapperà sarà la fuga della Terra con il Sole cioè dell’ovulo con lo spermatozoo e questa figura è perfetta perché la terra senza il sole è spenta ed il sole senza la terra non può esistere.”

Mona continua: “Non raccontare prima altrimenti si perde il gusto.”

“Proprio di gusto si tratta, ho letto nel libro di non so più quale scrittore russo che i tatari quando si avventuravano nelle steppe erano soliti portarsi dietro dei prigionieri da mangiarsi per strada, in questo caso il sole è inteso come cibo, nelle altre storie si vede che l’uccello tigre, quando si presentava alla sua femmina, le portava sempre un nero con un grosso cazzo che poi questa si beveva a canna svuotandolo del sangue, questa è la figura da leggere perché è quello che si vede nella realtà.”

Macaco dice: “Quindi Caterina si porterà dietro le provviste per il viaggio.”

Mona incredula aggiunge: “Lo farai anche con me, mi porterai sempre un bel nero cazzuto in regalo quando verrai a trovarmi?” Mi morde a sangue una guancia e continua: “Ho capito…così non potrò lamentarmi quando ti farai tutte quelle che ti frulla…”

“Oggi il sesso è recepito come male ma se lo si guarda come arte il significato si capovolge, la figura è contorta dal giudizio, il nero appare come la vendetta per gelosia di una bianca ma è un giudizio solo nominale che copre una figura assolutamente naturale come lo sono la Terra ed il Sole.”

Mona continua: “Mmm, se non ti facessi cornuto…non mi divertirei, così va a finire che sarei sempre fedele, non mi fregherebbe più niente di andare con altri.”

“Non credo, sarai sempre affamata, tu non sai il bordello che ho in mente per te, o meglio, quel che si vede nel futuro. Comunque questo non ha importanza, sono parole, la figura si evolverà insieme alle altre, trasferendosi nel linguaggio il cannibalismo preumano sposta il significato del sangue nel vino, la sangria che i terroni offrono all’uccello di fuoco, poi i preti lo riportano al sangue di Gesù Cristo, un essere dalle due nature come gli ermafroditi e si trasferisce il sole, quindi un nero che appare come bianco. Poi ci sono le due nature del linguaggio.”

“Questa sono io!” dice la Bastarda.

Macaco continua: “Le parole sporche come i giapponesi sporchi dei film americani, la cosa è irritante ed in Giappone li faremmo volentieri a fette ma guardando la figura senza giudizio si vede che dal male degli americani a guadagnarci è…continuiamo a chiamarlo Babbo Natale?”

La Bastarda esclama: “Sembra che leccate per terra quando gli state davanti!”

Macaco sbuffando ribatte: “Una lunga tradizione comunque è quel che si vede.”

“Si vede ben altro, la figura dell’imperatore è interessante per i collegamenti che seguono, comunque la divisione in male e bene del linguaggio si identifica nella mentalità dando forma agli uomini, è la parola ad essere ermafrodita nelle due nature di bene e di male ed a incarnarsi, il resto è conseguenza.”

Macaco dice: “Bisogna guardare quel che sarebbe altrimenti e quel che succederebbe se il Fusijama o il Vesuvio scoppiassero.”

“Che ti frega? dalle parole al film non si può cambiare una virgola, comunque hai fatto bene a ricordarlo. Nelle figure tracciate si vede che in un periodo cruciale della storia del Giappone vennero crocifissi dei cristiani e di conseguenza i samurai, che prima provenivano dai contadini e dai pescatori diventarono una casta ereditaria. Da queste ossa sepolte si possono imbastire probabilità confrontandole con fatti avvenuti altrove.” Guardo la Bastarda e continuo: “Tu devi essere proprio una bella zoccola.”

Lei ingenua chiede: “Che cos’è una zoccola?”

Macaco risponde: “Guarda sul dizionario, non si può spiegare.”

Continuo: “Che fossero cristiani non è certo, si vede solo la figura di crocefissi.”

Macaco dice: “Qualcosa caricato nel punto finale del fenomeno che poi la storia trascende fino ad oggi per farla ripetere.”

“Come sei intelligente…”  sussurra la Bastarda dandogli un bacio.

“Che ti metti a sfottere adesso?” risponde Macaco ricambiando il bacio.

“Questa storia deve essere avvenuta prima dell’inabissamento di Atlantide quando nel mondo si parlava tutti la stessa lingua e poi è stata ripetuta, riguarda la prima città che venne fondata in Giappone. Nagasaki era un centro commerciale degli europei che poi venne crocefissa dall’atomica, potrebbe essere lei ma questo non è certo così come non è certo che fosse un atomica perché i segni si vedono a Kioto, inoltre i sopravvissuti di Nagasaki ed Hiroshima che vennero sparpagliati per il Giappone dovevano essere considerati contagiati dalle radiazioni, quindi sporchi come i terroni in Italia. La matrice è comune a tutto il mondo, la probabilità è una nave di naufraghi o ammutinati italiani che sbarcarono in Giappone e poi si fusero con i nativi formando un nucleo che in seguito si espanse su tutte le isole, su quella nave dovevano esserci dei torinesi, dei napoletani e, per la quantità di puttane che ci sono in Giappone, anche dei cadorini, forse era una nave di Venezia. In questo caso, seguendo le figure, i napuli sono intesi come tirreni comprendendo la Toscana ed anche i terroni apuani sepolti a Siracusa, quindi la figura del castro di Casola.”

Macaco dice: “La probabilità per essere tale deve essere confrontata con un fatto accertato dall’esperienza altrimenti sono solo parole.”

“Qui entra in gioco Babbo Natale. Inoltre quegli italiani si fusero con delle giapponesi e ci doveva essere anche una bastarda.”

“Finalmente mi hai beccata…” dice la Bastarda.

 

“Nell’ultimo libro era venuta fuori la figura di una peppia giapponese con l’assonanza del nome in Michelangelo, l’idolo dei cavatori apuani. La moglie di Babbo Natale si chiama Macaco, come te?”

Macaco corregge: “Michico…si chiama Michico, comunque l’abbiamo trovata.”

“In Giappone la scimmia come assonanza è presente in molti cognomi, Mishima, Shomura, non mi stupirei che si siano anche bertucce, babbuini, scimpanzè e chissà che altro, nella lingua giapponese non vengono recepiti ma nella lingua italiana, se fosse sepolta sotto i livelli sarebbe davvero una comica. Su Wikipedia si vede la figura di un abitante delle Curili, un nanerottolo con una lunga barba.”

“La figura di Babbo Natale.” Dice Macaco.

“Esatto, qualcosa del genere dovevano aver trovato gli ammutinati di quella nave quando sbarcarono in Giappone, non c’è niente da sorprendersi se li battezzarono col nome di scimmie, comunque un nome che potrebbe essere una causa inconscia che sporca i giapponesi ma ce ne è un’altra che sta alla base.”

“Senza dar peso alle parole, comunque il fatto non è ancora accertato.”

“E tale deve rimanere perché comunque ora i giapponesi sono giapponesi e nient’altro. La vergogna di essere giapponese…”

“Non mi vergogno affatto!” strilla la Bastarda.

“Però ti vergogni…” le sussurra Macaco all’orecchio. “non mentire.”

“Non so cos’è…” continua lei,  “sembra un altro mondo, io non sono così!”

“Comunque la vergogna per un nome c’è anche in Giappone e questo è un fatto.” Ribatte Macaco.

“Non abbiamo fatti accertati per calcolare la probabilità quindi andiamo con logica. I giapponesi sono una tribù, le usanze della tribù, quindi la vergogna, sono riflesse dal totem. È probabile che Michico sia la donna più disgraziata del Giappone, deve avere delle vergogne nascoste che…scommetterei che non la riprendono mai a meno di dieci metri di distanza ed anche Babbo Natale, chissà quali problemi…il totem è elevato per dar forma alla tribù il resto è conseguenza. Se Michico sta attenta la storia che verrà rappresentata dai tarantolati può riguardare anche lei. Ci sono molti collegamenti, regine che danno alla luce un esercito di figli rimanendo sempre magre come acciughe, questo non è accertato dai fatti, è probabile che Michico sia ancora vergine ed il cazzo lo abbia sempre e solo visto nei suoi sogni dove chissà che puttana deve essere…”

“Probabilità…” continua Macaco,  “la cosa è divertente, allora chi sono quei…macachi?”

“I figli di babbo natale, la storia della cicogna e dello spirito santo, anche loro si devono vergognare a morte nonostante le apparenze, in Europa devono trasmettere il sistema degli zingari quindi è probabile che li prendano da lì, in Giappone non so ma deve essere qualcosa che trasmetta l’inferiorità delle donne come avviene nei nativi delle Curili. Michico per me è una zoccola qualsiasi ma se l’hanno messa dov’è un motivo ci deve essere, nella logica per rendere credibile una menzogna deve essere accostata ad una verità e potrebbe avere qualche importanza.”

Macaco continua: “Si vede un grande baraccone di attori ed una tribù di citrulli che si beve tutto quello che gli pisciano in bocca.”

La Bastarda ribatte: “Proprio così”

“Sta attenta…” aggiunge Mona,  “questo incanta e poi…”

“Il collegamento con la favola di Caterina e Pietro, la lavandaia che diventa zarina che nella canzone O sole mio sta di fronte agli specchi delle finestre, la figura si trasporta alla Bela Rosin che sposa Vittorio Emanuele a Torino e da qui a Napoli con la Rosa che sposa Scarpetta, nella letteratura napoletana è espressa in Miseria e nobiltà dove il nobile a guardare la forma sciolta dal nome è sempre un nano deforme brutto come la morte e la miseria è rappresentata da una bella ballerina che poi diventa una peppia.”

“Proprio come in Giappone, è questo è un fatto accertato che ci collega a Napoli e Torino, per quanto riguarda le puttane…” fa notare Macaco.

“Una matrice ma non sprechiamo parole, a prescindere dai sistemi che hanno usato le figure sono disposte in modo perfetto.”

“Lo so cosa vorresti dire…” continua Macaco,  “ai giapponesi che cazzo gli frega di quel cottolengo? Ognuno continua a fare il suo mestiere e quel che sarà sarà.”

“Perfetto. Ci sono anche collegamenti con la Rania di Giordania, quella all’apparenza è ancora gnocca ma si vede una cavalla di Troia che fa entrare in Giordania e Israele centinaia di miliaia di palestinesi cacciati dal Kuwait dagli americani che seguendo le probabilità potrebbero causare un esplosione demografica con conseguenze catastrofiche, anche quei palestinesi devono essere considerati sporchi, come lo è Rania. In questo caso passerebbe come capro espiatorio e probabilmente anche Michico...”

Macaco dice: “La causa non è effetto, Michico è un effetto, un burattino, la causa…sembra un programma dove automaticamente tutti i popoli si distruggono da sé dando la colpa ad una donna per potersi ripristinare.”

“Del popolino che ci frega? è un effetto del totem, la causa…potresti essere tu a dare la colpa ad una donna, come fece Adamo, anche se negati l’origine parte sempre da noi e se c’è male è in noi che lo dobbiamo cercare.”

“Ho capito perfettamente.” Ribatte Macaco.

“Per quanto riguarda i giapponesi sporchi ci sono diverse probabilità che ormai sono già state trattate, è attinente coi terroni e qui…andiamo subito alla fonte, probabilmente centra ancora Michico.”

“Preparati, ” dice Macaco alla Bastarda, adesso butta i bastoncini e traccia la figura, ormai ho capito come funziona.”

Il profumo della macchia vicino ai vulcani è sempre fuoco, il teatrino coi pupi in attesa della scintilla, la musica selvaggia della natura che nessun strumento potrà mai imitare, la poesia e la pazienza di colorare i petali dei fiori e le ali delle farfalle poi…il piacere di affondare i denti nella carne viva e mordere senza pietà.

Chiedo alla bastarda: “Ce l’hai il fidanzato? Una bella ragazza come te…”

Lei si tira indietro e con voce incerta risponde: “Si e no, dipende…per il momento preferisco restare libera.”

Insisto, infilando il coltello nella piaga: “Come è possibile alla tua età? Non li senti i pruriti?”

“Quali pruriti, mi hai presa per una bestia? E poi…qui sono straniera, io…”

Infilo una mano tra le cosce di Mona e dico: “Una bella donna come te che passa la vita tappata in un buco sola a guardare la televisione…”

Salgo con la mano, lei la ferma, la sfila e dice: “Che fai qui davanti a tutti? aspetta, i piatti sono vuoti, vado in cucina a prendere qualcosa.”

La trattengo e chiedo a Macaco: “Ti ricordi quando eravamo uccelli tigre nella giungla?”

Lui risponde: “Un’ improvvisazione senza rimorsi?”

“Allora facciamo un gioco!” Accarezzando le cosce di Mona le chiedo: “Quante volte hai sognato che te la leccavo prima di accoltellarti?”

“Che mi fai pensare?” risponde gonfiando i capezzoli.

Macaco chiede alla Bastarda: “E tu, sei giovane, te l’hanno mai leccata? Scommetto di no, sembri ancora una verginella.”

Lei arrossisce e ribatte: “Che discorsi fai? Cosa penserebbe Babbo Natale?”

Macaco continua: “I poeti hanno le loro usanze, ci piacciono le emozioni estreme, le sfide che nessuno ha mai tentato, i gusti che stanno dietro i sapori dei sapori, solo noi li sappiamo apprezzare…”

Mona dice: “A me sa che ci state prendendo in giro, che è sta storia?”

“Sei capace a non pensare?” Le chiedo.

“Ci posso provare.”

Alla Bastarda: “E tu?”

“Qualche volta…”

“Allora non pensate, chiudete gli occhi e lasciateci fare, lo so che ci sono cose terribili ma son proprio le cose che piacciono agli uccelli tigre, voi siete i nostri manicaretti e più…scriviamo una poesia sulla carne, solo parole, il gusto ed il piacere, senza vergogna.”

Mona dice: “Son solo parole, fate paura, sembrate due bestie però…tu sfotti e voglio stare al gioco, è una sfida, voglio proprio vedere che farai.”

La bastarda aggiunge: “Il pugnale m’ha toccato il cuore, adesso sono morta…non mi importa più di nulla e non ho paura, però…”

Mona le dice: “Stacci anche tu, potrebbe essere divertente, siamo in una poesia, son solo parole.”

“Va be’…se son solo parole…”

Le solleviamo sul tavolo facendole coricare poi sistemandoci le loro gambe sulle spalle le solleviamo le gonne sfilando le mutandine.

Macaco dice: “Stai facendo tutto tu ma non mi sono mai divertito così tanto.”

Hanno tutte e due la figa rasata, quella di Mona bella polposa col clitoride gonfio da far venire voglia di mordere, quella della Bastarda delicata e fresca con due baffetti appena accenati sulla cima del pube, il clitoride in boccio ancora indeciso. Il profumo per il momento è indistinto, come qualcosa di chiuso che sta per prendere aria. Ambedue hanno un tampone conficcato nel buco.

“Questa sarebbe poesia?” chiede la Bastarda.

“Perché no?” risponde Mona ad occhi socchiusi,  “pensa se lo facessero veramente.”

Sfiliamo i tamponi. Esce una zaffata maleodorante da far svenire i cani seguita da un getto di pus misto a sangue marcio con venature giallastre schiumose di fermenti vivi che subito ci affrettiamo a leccare per non far sporcare la tovaglia.

Macaco, con la bocca impiastricciata, fa un rutto e dice: “Buono, ne è rimasto ancora un po’, vuoi assaggiare? La tua com’è?”

“Non c’è male ma questa è stagionata, ce n’è anche qui, prova.”

Ci passiamo le fighe una per volta leccando avidi, Macaco dice: “La mia ha un gusto più fresco, questa e più saporita.”

Dopo aver fatto scorrere la lingua sul palato per sciogliere i particolari ribatto: “È vero ma questa ha un retrogusto di piscio stantio che delizia.”

Ci ripassiamo le fighe riprendendo a leccare, il sangue marcio ed il pus escono misti al liquido vaginale che si è messo a scorrere impetuoso…

La bastarda dice: “Una cosa così…se lo sapesse mia madre sarebbe…una poesia simile non l’avevo mai sentita.”

Mona mugola: “Mmm…”

Le fighe stan perdendo di gusto, prendiamo i tamponi annusandoli, un profumo impronunciabile,  bisognerebbe inventare la parola e non c’è accrescitivo che potrebbe qualificarlo, gonfi di sangue marcio in molti punti rappreso. Dopo averli sventolati per stimolarne l’aroma  iniziamo a sbocconcellarli intingendoli nel succo delle fighe per ammorbidirli.

Dico: “Eccellente, un gusto che riempie la bocca, mai assaggiato niente di più buono però…potrebbe essere meglio, questo si sente che è cambiato da poco, avesse tenuto quello di stamattina sarebbe stato meglio, non guasterebbe neppure qualche vermetto per arrotondare il sapore. Vuoi assaggiare? La tua com’è?”

“Ti ammazzerei…” mugola Mona.

Macaco risponde: “Non c’è male, m’è capitato una volta di aprire una scatola con del pesce che marciva da un mese ma la fragranza non era così intensa, il retrogusto è pepato, molto piccante. Tieni, assaggia, passami il tuo.”

Mentre avviene il passaggio la Bastarda strilla: “Una cosa così! Non avrò più il coraggio di uscire per strada.”

Mona, mugolando, le risponde: “Mi son già cambiata due volte le mutande, gli farei assaggiare anche quelle…che gli dai retta? son parole che si inventa sul momento.”

 Assaggio il tampone della Bastarda, rimango qualche secondo in silenzio lasciando sciogliere da intenditore i sapori sulla lingua e dico: “Hai ragione, è molto pepato, d'altronde si vede, peccato che anche questo è fresco, la prossima volta glielo faremo tenere per una settimana.”

“Scordatelo!” strilla la Bastarda.

Macaco, assaggiando il tampone di Mona, commenta: “Eccezionale, la stagionatura gli dà quel non so cosa che…non sono d’accordo con te per quanto riguarda il tempo, preferisco le cose fresche ma forse il mio è solo un giudizio.”

Finito il tampone ci ripuliamo la bocca strofinandola sulle loro cosce e le rimettiamo a sedere.

Fuori dai luoghi comuni, un altro mondo.

 

C’era una volta una figa sdraiata col buco spalancato in mezzo a due belle gambe di ballerina, dal buco esce un filo d’odore arrappante che si ramifica tutt’intorno formando una rete, come quella dei pescatori. Arriva un cazzetto volando e si impiglia nelle rete, si dibatte per liberarsi e ne rimane tutto attorcigliato mentre la figa, sbavando di fame, ritira lentamente la rete all’interno.

Dei faretti fissati su delle aste illuminano il palcoscenico, un leggero vento soffia dal mare, il profumo della spuma delle onde  si fonde con quelli del villaggio e dei fiori delle colline che stanno intorno scivolando sulla musica, i suonatori ci han preso gusto e si stanno divertendo, le percussioni si frangono contro lo scoglio tintinnando di piatti e sonagli, da lontano si sentono rullatine crescere d’intensità sempre diverse e poi splash! gli assoli delle chitarre si alternano sulle onde,  proseguendo sui toni alti un gabbiano si alza in volo e si lancia in picchiate e risalite duettando col vento soffiato in contrappunto dalla tromba,  i sassofoni scivolano sulle onde con leggeri soffi di innamorati mentre gli accompagnamenti con pennate accennate anche queste a fantasia sulla tonalità di fa maggiore marcano i quarti battuti dalla batteria, il tutto abbracciato dalla sonorità dell’organo.

Le ondate del balletto si frangono contro lo scoglio, le ballerine sollevate strillano godute agitando sonagli e fazzoletti, qualcuna viene lanciata per aria e scende leggera roteando  di spruzzi scintillanti. Caterina seduta sopra lo scoglio guarda lontano il sogno all’orizzonte del mare sospirando, con un braccio cinge l’amorino e forse inavvertitamente con una mano gli accarezza  il cazzo di pietra che sembra diventare sempre più duro.

Arriva l’aquila come una cannonata, entra nel balletto scompigliandolo, mentre il ritmo accelera i ballerini si mettono a girare lentamente ondeggiando al passo della tarantella, le acque agitate sollevano spruzzi di ballerine, più in alto intorno allo scoglio. Guappo, piroettando intorno a loro fa strage di cuori abbracciandole dove gli frulla, intorno a lui s’agitano i sonagli e le ballerine toccate cascano languide tra le sue braccia per poi sciogliersi nelle acque quanto le lascia per rimettersi a ballare al passo più in là.

Caterina lo vede, rimane qualche secondo a studiarlo poi scende dallo scoglio ed inizia a ballargli intorno svolazzando la gonna come le ali di una farfalla. Guappo non la nota e continua il suo gioco allora lei si avvicina e sempre girandogli intorno voluttuosa lo struscia e spintona poi si allontana e riprende a scuotere la gonna piroettando sulle punte.

A questo punto si vede un filo  invisibile uscirle da sotto la gonna e come un lazo accalappiare alla gola Guappo, questo annusa l’aria e vede Caterina, il ritmo accelera, ora i gabbiani volano più alti, i sonagli tintinnano ovunque, il vento allunga i suoi gemiti in contrappunto e le percussioni rombano scontrandosi tra loro e contro lo scoglio, tutto avviene spontaneamente, ormai sono lanciati, il balletto accelera i passi e la spuma vola sempre più alta, gli strilli delle ballerine argentano i movimenti illuminandoli d’eccitazione come se cavalcassero tori infuriati.

Guappo si getta su Caterina, lei lo respinge e piroettano intorno per studiarsi, più volte lui cerca di prenderla ma lei lo respinge sempre, l’aquila si infuria e tira fuori gli artigli, si getta per ghermirla e lei fugge correndo con la gonna agitata tra le file ondeggianti dei ballerini seguendo un movimento a spirale che dalla circonferenza si avvicina allo scoglio.

Il ritmo accelera, inizia la danza del labirinto, ora sui ritmi le aquile han preso il posto dei gabbiani e girano in tondo ad artigli protesi tutti pronti a ghermire, gli assoli di chitarra si contrappuntano ai fiati agitando le loro ali, le percussioni suonano ad occhi chiusi ormai avvolti completamente dal ritmo della tempesta che si avvicina, si vedono mazze andar su e giù, soffi di voce dal profondo uscir fuori selvaggi, il basso insinuarsi nel gioco col rombo del tuono. Nel villaggio sempre più finestre si sono aperte con minatori neri che guardano increduli, qualcuno grida da lontano con voce tenorile o con sonorità di baritono, i suoni si accordano espandendo le sonorità.

A questo punto siamo ancora al gioco e tutti si divertono, la figura di Teseo che segue il filo di Arianna, il filo continua ad uscire dalla gonna svolazzante di Caterina, i ballerini le ostacolano il cammino ponendosi di fronte, Arianna riesce a sgusciare facilmente dalle loro maglie mentre Teseo trova più difficile, balzi uno di fronte agli altri poi di qui, di là, sempre chiuso, allora si butta di forza, lotte simulate tra strilli e schiamazzi, ci vorrebbero i salti mortali, riesce a passare, perde di vista Arianna, annusa l’aria e ritrova il filo e continua a seguirla a spirale avvicinandosi al centro.

Caterina arriva per prima e incontra il Minotauro. Il ritmo accelera, ormai si sentono solo più dei tum tum ciaf alternati e marcati in successione che danno l’impressione come il suono affiatato di un unico cuore che batte dopo una lunga corsa sempre contenuti nei quattro quarti iniziali mantenuto dalla batteria con rullate vertiginose e gran clangore di piatti, fiati e chitarre  nessuno li tiene più e sembrano duellare tra loro in lotte furiose, le pennate dell’accompagnamento al ritmo di una tarantella velocissima, nel villaggio ormai tutte le finestre sono aperte e sembra illuminato a festa, ai tenori e baritoni si aggiunge il gorgheggio di soprani che primo sotto il nero della fuliggine non si distinguevano. Qualcuno canta canzoni napoletane ma nel frastuono generale le voci si fondono ed anche queste non stonano.

Il Minotauro è un ballerino che tiene con le mani due lunghe corna fissate alla fronte, Caterina si ferma, guarda Guappo che si avvicina ed inizia a danzare intorno al Minotauro e quando arriva lo abbraccia. Guappo si blocca con aria delusa, fa qualche passo indietro poi si sfila dal collo il cappio e si getta nella mischia riprendendo ad aggrinfiare ballerine. Intorno a lui le acque si agitano furiose, gran sollevamenti di onde e strilli ecc. L’attenzione lo segue, allora Caterina si sgancia dal Minotauro ma questo la trattiene, le indica Guappo e poi si toglie le corna e gliele mette sulla sua fronte, lei ribatte, le respinge e glieli rimette sulla sua, il gioco si ripete due o tre volte poi lei gli dà uno spintone e lo manda a ruzzolare e si mette ad agitare la gonna smaniosa facendo nuovamente uscire il filo, Guappo lo sente, annusa l’aria e sempre tra mille ostacoli che gli si parano davanti torna da lei.

Inizia la successioni di semitoni della scala cromatica, uno ogni quattro battute da quattro quarti, il tempo per uscire dal labirinto, le percussioni sono solo rullate ed a ogni semitono accelerano, il resto dell’orchestra sembra che stia per prendere fuoco, chitarre e fiati si lanciano in improvvisazioni selvagge che si contrappuntano tra loro crepitando come fiamme, il basso tuona sopra le onde impazzite, gli accompagnamenti certi rullano con le percussioni altri impazzano pennando note ormai puramente a caso, l’organo con una mano segue i semitoni l’altra la fa scorrere sulla tastiera senza ritegno, nel villaggio oltre alle voci tonanti in aumento si vedono accendersi castagnole, girandole e cascate pirotecniche, qua e là qualche petardo che scoppia.

A questo punto l’uscita diventa difficile, tutti i ballerini hanno sentito l’odore di Caterina e impazziscono opponendosi a Guappo, sembra un incontro di rugby all’ultimo sangue però molto aggraziato, la ballerine gelose agitano le gonne piroettando e roteando sguaiate coi capelli come fiamme sollevando altri fili di puzza di figa che avvolgono il balletto in una nebbia fiammeggiante e si oppongono a Caterina, gira di qui e gira di là comunque, allargandosi in tondo sempre a spirale riescono ad uscire.

Salto di ottava, fuoco, l’orchestra ormai ognuno per sé comunque sempre contenuti nei quattro quarti, sono tutti sudati e ansimano urlando con voci spezzate, dal villaggio tenori baritoni e soprani rimbombano a tuono da far invidia al An die freude,  da tutte le finestre si vedono precipitare cascate pirotecniche, botti, fuochi artificiali esplodono nel cielo, qualcuno all’esterno fa esplodere candelotti di dinamite, tutte le ninfe e le fate nel giro di centinaia di chilometri accorrono volando sulle loro scope incantante e volteggiando sopra al villaggio si mettono a cantare con la voce della natura, si sente l’uragano, il vento impetuoso, il fragore dell’eruzione dei vulcani, i terremoti, le trombe d’aria e chi più ne ha…

Caterina e Guappo, ormai presi dalla parte si lanciano uno contro l’altro ed inizia la violenza anche se non si capisce chi dei due la fa, si strappano i vestiti di dosso, morsi, schiaffi, strilli e urla selvagge, tutti i ballerini li imitano, le femmine in preda al furor bacchico si avventano sui maschi urlando e morsicandoli, questi rispondono difendendosi come possono, gli abiti stracciati volano per aria ricadendo a terra formando un tappeto multicolore su cui sembra scorrere un fiume di sangue.

Il climax è alle stelle, anche queste iniziano ad esplodere prese dal gioco inondando il villaggio della loro luce. Dal mare iniziano ad allungarsi lunghe lingue di nubi filamentose arrossate dai fuochi artificiali e dalle cascate pirotecniche sprizzando elettricità, il vento si è alzato e soffia a perdifiato sibilando tra i vicoli e sopra i tetti.

Ormai siamo fuori copione, i ballerini pesti e sanguinanti si aggrovigliano in abbracci selvaggi,  Guappo è riuscito a mettere sotto Caterina, sono ambedue nudi, lei soffia e strilla come una gatta furiosa, per un attimo torna in sé, con una pietra colpisce Guappo alla testa e scappa via, corre dal nerone che in quel momento anche lui impazzito sta rullando sul suo tronco a più non posso, a schiaffoni lo fa svegliare poi tirandolo per mano corrono fuori dal villaggio.

Guappo si riprende, fa in tempo a vederli uscire dalla strada e ancora barcollante li insegue. Nessuno si è accorto di niente. Il cielo è ormai completamente ricoperto, dopo un lampo ed un tuono furioso che fa tremare ogni cosa inizia a piovere a dirotto calando il sipario.

 

 

 

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