Come tenere allegro un moribondo? Spirito da quattro soldi, originalità da strafare sul trito ribattuto, impasto di nomi, frasi e credenze ereditati da un passato
incerto che si specchia al presente proiettando al futuro vaghe tracce di
probabilità che finiscono in nulla.
“To hear with eyes
belongs to love’s fine wit.” Scriveva forse Shakespeare qualche secolo fa, sta ad indicare che la musica si guarda, l’allusione a “Pierino ed il lupo” di
Prokofiev, suoni raccontati e quindi
immaginati, un alfabeto di suoni che
sostituiscono le parole per chi sa vedere ma si può dire il contrario perchè anche le parole sono
suoni e possono diventare musica.
Il suono che accompagna il ticchettio della macchina da
scrivere, improvvisazione composizione
musicale, nel Canone nulla ha importanza,
così come viene, si può iniziare nel vedere una fisarmonica che
suona da sola con valente maestria, arpeggi ritmati da un accompagnamento in tre
quarti mentre nell’ aia i contadini danzano la pratica della teoria, gli arpeggi in scala modulano le tonalità
zigzagando tra alti e bassi, un fiume di
suoni che si vede sfociare in un mare di movimento andantino verso il mosso e
sotto il mare, tanto per cambiare, c’è un cimitero.
Dall’orchestra uno squillo acuto di tromba, la voce narrante descrive la lama che taglia
la gola ad un caprone nero, segue un
frusciare di violini con sottofondo di rulli di tamburo con picchi scanditi da
un timpano per vedere le gocce di sangue che colano sulla terra di una tomba.
Esce una zingarella che stringe una bambola di pezza tra le
braccia, qui si vedono gli archetti dei violini andar su e
giù eccitati, i fiati ululare a tutti
polmoni, il pianoforte una cascata che
precipita senza ritegno e piatti e tamburi darci dentro alla grande mentre la
zingarella improvvisa una danza piroettando con la bambola abbracciata.
Bruna con i capelli lunghi raccolti in una treccia, il viso grazioso con vivaci occhi neri e la
bocca grande dalle labbra sensuali, una
camicetta colorata di macchie sudice e buchi rattoppati, gonna lunga che roteando nella danza fa alzare
scoprendo tornite gambe da ballerina coi piedi calzati da scarpe coi tacchi di
almeno cinque numeri più grandi.
Tra i suoni serpeggia l’acre e appetitoso profumo di una
figa non lavata, un fulmine, il boato di un tuono che rimbomba subito
lontano svanendo tra le nubi all’orizzonte mentre sull’ondeggiare melodioso di
un vibrafono appare il figlio della Natura, l’uccello di fuoco, la bestia, vestito da Arlecchino.
Un quarto di luna con la stellina, la madonna col bambino, uno standard, il bambino nato morto per antonomasia è Gesù, in questo caso il figlio di dio, dio è un nome, il nome non è forma, il nome è uno e la forma è universale quindi
più di uno ma in questo caso non si vede, è negata, a essere negato di Dio è il male che è il suo
corpo e continua a non vedersi.
Del re dei giuda alias dottor Faust o falso dottore è stato
scritto abbastanza, bene o male non è, è teatro, il corpo di dio nascosto dietro appare come un
branco di cottolenghi rabbiosi che cercano disperatamente un capro espiatorio
su cui scaricare il proprio male. Cottolengo è una variante dialettale di
cattolico il cui etimo è “preso dal lupo”
cioè pazzo o lupo mannaro e mannaro potrebbe intendere chi aspetta che la manna
piova dal cielo, magari per una eredità
o vincita al totocalcio o un’elemosina. L’etimo si può estendere a tutte le
religioni perché la forma che si vede non cambia.
Ponendo come premessa che la causa non è effetto e quel che
si vede è sempre effetto e quindi non è causa la scena si allarga in una fitta
boscaglia piena di ragnatele dove la luce non entra e nel buio si vedono
lampeggiare gli occhi famelici dei lupi mannari.
La musica tace, appena un venticello che si struscia intorno
alla treccia della zingarella mormorando languidi sospiri d’innamorato.
Lo standard con occhi
supplicanti mostra ad Arlecchino la bambola, la faccia triste di Pierrot con la lacrima e
porgendo la mano a palmo aperto chiede: “Me lo dai un soldino?...lui ha tanta
fame…”
Arlecchino non parla, la forza primordiale spietata e selvaggia
della natura, con una zampata ad artigli
protesi fa saltar via la bambola, poi
ruggendo furioso afferra la zingarella per la treccia, la fa girare alla pecorina e dopo averle
sollevato la gonna e strappato le mutande sudice con un morso la violenta di
brutto affondandole nel corpo il suo enorme cazzo. Per un po’ va avanti così, lo standard non sembra affatto dispiaciuta e
strilla come un’ aquila ribattendo la foga poi la scena si arresta e torna
indietro velocemente, lo standard è
nuovamente a mano tesa ed Arlecchino, solleticandosi con un unghione i luccicanti
denti da tigre dice: “Perché essere ipocriti quando se ne può fare a meno?”
Musica, come uno
schiacciare di noci si sentono i denti dei cottolenghi masticare medicine nel
buio della boscaglia, per il momento non
mordono altro quindi va bene così, per
la logica lo zingaro è nome, la forma
universale si allarga in un’arena strapopolata di bestie che contorna con alte
mura il cottolengo che circonda il cimitero sotto il mare. Lo standard è uno, la sua fascia statistica di riferimento
universale, il totem e la tribù, tutti aspettano la manna dal cielo e guardano
in alto a bocca aperta dove si vede Arlecchino pisciare ridendo, nel buio risuonano i tam tam, i passaparola ridondano sommessi gemiti di
impotenza, si sente la lira di Orfeo
pizzicare dalle corde suadenti richiami per i morti, la boscaglia si anima, gli alberi si muovono sudando sangue per
estirpare le radici che le tengono schiave alla terra, Isis piange nella notte stellata evocando le
parti di Osiris disperse nel Nilo, i
morti gemono nelle tombe, ululati a non
finire che si mescolano al vento roteando in turbini di caos che sollevano
polveroni di nulla, nell’improvviso
silenzio la zingarella dice: “Sono scappata, non so se puoi capire…fuori erano tanti ed io
ero sola ed avevo paura mentre qui e tutta un’ altra cosa.”
Una macchina che mangia e caga, se non mangia non caga e si ferma, ergo est o ergo non est? Valli a capire sti
cazzi di scrittori, ce ne fosse almeno
uno che ragiona, ragli d’asino, pastura di carrube, idee, tradizioni, credenze…non deve essere facile governare
stoccazzo di mondo e ogni porcaro ha i suoi metodi, criticare e facile ma che sarebbe altrimenti?
Solita pizza, problema delicato, una morta da chissà quanti secoli, il comportamento di una principessa o regina
da confrontare con una qualsiasi zingarella prigioniera nel ghetto che l’ha
partorita. L’apparenza è pura banalità ma chissà che c’è sotto calcolando che
tutto è iniziato dalla fuga degli schiavi ebrei dall’Egitto. L’intuizione e l’assonanza del nome evocano
la figura di Giuditta che taglia la testa ad Oloferne alias Attila, l’eroina traditrice, probabili influenze di Diana e del cottolengo
inglese quindi ergo non est, tutto questo è tritume, all’uccello di fuoco piace bruciare e per non
bruciarsi e morire può spegnersi solo fuoco contro fuoco.
Il mito di Giuditta si collega a Perseo che taglia la testa
alla Gorgone, in questo caso c’è un
inversione di donna in uomo, quindi un
ermafrodito, un mostro, quello che si vede e guardando meglio un
burattino, un golem, un morto animato.
Lo standard è scontato nella sua banalità, nella tribù di cottolenghi ogni individuo lo
rispecchia, fuori dalla tribù si guarda
come si potrebbe guardare impalare un maiale senza giudizio.
Il compositore cerca di sistemare sul pentagramma le note
che dipingano la gelosia e non sa decidersi, quale suoni se non quelli di vendetta e autolesionismo? A che strumento
farli suonare? Forse ci vorrebbero pesci sega che fanno da archetto a
violoncelli con corde di budella di maiale piene di merda, musica soft, sciacquettata, zigrinata da scorreggine che escono nei tratti
segati, qualche splash dalle bolle di
fermentazione intestinale che inevitabilmente si alzerebbero, voci di culo di sottofondo, altre scoregge è questo è logico quando il
culo parla dalla bocca.
Su questa musica la zingarella abbraccia il Pierrot di pezza
e dice: “Solo lui non mi tradisce mai!”
Arlecchino ribatte: “La figura della luna con la stella, siamo in un cimitero sepolto in fondo ad un
mare di false credenze che potrebbe aprirsi come il mar Rosso per farle passare al futuro, bisogna lavorare di fino. Le stelle marine per
digerire il cibo debbono eiettare lo stomaco all’esterno, qualcosa di simile fanno anche i ragni, ci deve essere un collegamento.
Quando non si sa che cazzo inventare e la noia diventa
asfissiante per svago o cosa simile ci si può cimentare nel mestiere di
archeologo del linguaggio. Ad esempio una cinquantina di anni fa nei bambini
era ricorrente l’esclamazione: “Cazzo di budda!” e si usava spesso dare o
ricevere del “Mammalucco!” e pure usare la locuzione fumare o bestemmiare come
turchi. Queste parole erano imparate da altri bambini più vecchi che a loro
volta le avevano imparate da altri bambini ecc. e così si scende di secolo in
secolo fino all’origine.
Il linguaggio si specchia nella realtà nominandola, come nella realtà gli archeologi scavano alla
ricerca delle negropoli del passato portando alla luce ossa e putrefazione così
si scava nelle parole, un cimitero di
parole morte, locuzioni in loculi
dimenticati sepolti nell’oblio del tempo.
Qui c’è una nicchia, al soffio si alza un polverone della madonna, tutta la platea ed anche nella galleria e nei
palchi tossiscono, poi si alza il
sipario e sul loculo si legge:
“NIGER ARACNI IN PUTRIDO SERBA”
Al tocco si mescola enigmistica e intuizione, qualcosa del genere dell’ermetismo di Ermete
Trismegisto che collega ad Ermes psicopompo ed al mito, qualunque esso sia.
Niger può intendere molte cose, nell’accezione negro significa morto e si
collega alla locuzione lavorare come negri quindi agli zombi ed al vudu
afroamericano e di riflesso ai golem ed al cabalismo della torah ebrea.
Cambiando la disposizione delle lettere diventa regina con un richiamo
assonantico agli (Z)INGER, quindi si legge: “Regina degli zingari morta che
lavora come una negra.”
Aracni come genitivo
singolare della seconda intende dei ragni, come personaggio del mito è la tessitrice
trasformata in ragno dalla gelosia di Atena calcolando che anche Penelope
faceva e disfaceva una tela.
In putrido serba potrebbe essere un’ironia dell’autore, siccome il canone si basa proprio su quella si
può leggere che è schiava nel putrido ma anche che è conservata nel putrido ed
in tal caso il significato si capovolge.
A questo punto la tomba si apre. Esce il solito polverone
della madonna, tutto il pubblico
tossisce, uno scroscio di colpi di tosse
da far invidia all’applauso più caloroso ed al sopire di questo appare un
involto ficcato nel loculo.
Il “pacco” è completamente fasciato dalle ragnatele, sembra una mummia, il filo si allunga dipanandosi e mette alla
luce un mucchietto di stracci dai colori stinti e lisi di tempo. L’intuizione
senza dar peso alle parole e dilungarsi in sproloqui capisce subito di aver
trovato i pezzi della tela di Aracne strappati da Atena. Una scoperta ghiotta.
Li tira fuori dalla tomba e come ricomponesse un puzzle prova a risistemarli al
loro posto. Il tessuto è semisdrucito, talmente logoro che va maneggiato con cautela,
i brani sono spessi, più che una tela sembra un tappeto, potrebbe essere il tappeto volante delle mille
e una notte ma restiamo coi piedi per terra. Trama ed ordito, forse una favola, si inizia col vedere una nave, un antico veliero a tre alberi con le vele
gonfie di vento.
In putrido serba, la
figura di un seme conservato nella merda, quale uccello lo abbia cagato e su che pianta
lo abbia preso per il momento non ha importanza, si tratta di natura ed il comportamento è
prevedibile. Dopo tanto tempo la merda è diventata dura come un sasso, il seme stenta a sbocciare, una lunga sofferenza, dall’esterno si vede la pietra gemere quasi
volesse parlare.
L’abito del seme, quel che potrebbe fare una suora citrulla e
credulona del cottolengo se improvvisamente le apparisse la madonna vergine e
le dicesse che in realtà è una puttana sguaiata e glielo dimostrasse in modo
inoppugnabile. La suora è davanti allo specchio, tutte le sue credenze andrebbero a farsi
friggere, si ritroverebbe nuda e per lo
spavento negherebbe l’evidenza tornando a rivestirsi di merda, passerebbero i giorni ed il tempo li
indurirebbe in pietra.
Figura da leggere in chiave preumana, il corpo è cibo e per non venire mangiato
necessita di una copertura, un abito che
più è duro più è resistente ai morsi. La forma preumana si è trasferita nella
mentalità quindi nel comportamento, la
chiave di lettura.
Siamo su una nave in mezzo al mare ed all’orizzonte tutto
intorno si vede solo acqua sciacquettare in pigre onde d’abitudine. Sulla coffa
c’è una vedetta, gli faccio cenno e
quella allarga le braccia sconsolata come per dire: “Non si vede un picco.”
La nave è grande, le
vele gonfie di vento avanzano sfidando l’ignoto, sul mare si vedono molti pescicani che ci
seguono affamati, come ci sono finito
non lo so, è capitato tanto tempo fa e
forse l’ho dimenticato ma ho fatto in fretta ad impratichire.
Una nave spettacolo, descriverla nei particolari sarebbe buttar
acqua al mare, basti dire che il piatto
forte è rappresentato dalle puttane. Queste sono sempre affamate e dimostrano
una predilezione naturale per me, per fortuna
sono facilmente addomesticabili, hanno
riflessi condizionati che le muovono come burattini, basta fare gli occhi dolci ed accarezzare una
che le altre si buttano subito a sbranare negri. Sia ben chiaro, è scritto negri che significa morti e non neri
come ad esempio gli africani, comunque
l’immagine che si vede è proprio la loro, neri dai corpi muscolosi luccicanti d’oli
profumati con grandi cazzi sempre in
tiro.
In questo caso negro, cioè il morto, significa “quel che più lo farebbe ingelosire”
quindi una vendetta ma questo riguarda l’idea di un qualcuno che si
ingelosirebbe se che nulla ha a che fare con me quindi si tratta di un altro e
questa è una buona copertura, almeno
fin’ora ha retto.
Reperire i negri per il loro mantenimento è tutt’altro che
facile ma è l’unico modo per tenerle tranquille. Per quanto robusti si
consumano in fretta, mantenerli a uova e
bistecche non basta, vengono divorati
senza pietà ed in loro assenza le puttane riprendono a guardarmi fameliche ed
allora bisogna trovarne subito degli altri. Una volta consumati i negri vengono
buttati a mare e finiscono in pancia ai pescicani, ce ne sono molti che si gettano da sé dicendo
che è meglio essere mangiati subito da loro che poco per volta da quelle ma
sono particolari insignificanti. Il canone, la figura ha dipinto il comportamento
evidenziando la presenza di un fantomatico “qualcuno che si ingelosirebbe se”
ed il motivo per cui lo farebbe e da questo si iniziano a vedere probabilità, sul momento la vedetta dalla coffa grida:
“Terra! Terra!”
Il divorzio di
Adamo ed Eva.
L’inizio di solito è una bella frase che vale metà
dell’opera, l’altra metà bisogna
guadagnarsela in qualche modo, sudore
fatica su e giù per le scale imprecazioni bestemmie d’abitudine a stento
trattenute covano uova represse che si spaccano e dentro non c’è un’ acca per
comporre una parola qualsiasi, neppure
una frittatina con le cipolle o che so?...una pozzanghera di notte che riflette
la luna piena con intorno nugoli di rane che gracidano con voce invisibile, cioè non si vede, non si sente, non si tocca, non ha sapore, profumo, nulla.
Aperta la finestra la realtà entra scrosciando di miliardi
di mandibole affamate che mordono stritolando con denti spietati, a pale sguaiate ci si butta dentro di tutto, il rumore è assordante contrappuntato da rutti
e scoregge che sollevano polveroni spoetati da cui non si vede ispirazione
incanalati in un fiume di caghetta che scorre tumultuoso per precipitare sul
fondo del foglio su un oceano di merda dove galleggiano pigri stomaci
d’opinione, balene più o meno gonfie che
non hanno altro da fare che mangiare e cagare ed allora il resto è conseguenza.
Chiusa la finestra sul foglio ricompare il silenzio, un silenzio da plasmare con dita esperte, si può immaginare, una carezza qui, un soffio là, una grattatina…il silenzio s’arrappa gonfia e
freme eccitato, il foglio vorrebbe
volare pagina dopo pagina con ali aperte scivolando sul vento così come gli
frulla, senza specchi per ridondarsi, come si suol dire pura libertà. Belle parole
non sempre corrispondono ai fatti, si
dice uccello e poi si vede un maiale all’ingrasso, le ali ci sono ma come si fa? Un voletto fuori
dal porcile suono di ali che volano, sbattimento, coltellacci affilati vanno a prosciutti, salsicce, cotechini, non si vede altro, amore un sarcofago e dentro qualcuno batte, battere a puttane, battono i coltelli fra loro, un frastuono assordante, il volo ritorna al nido rotolando nella
propria merda, nel frigo altre salsicce,
almeno non si muore di fame ma dov’è la
poesia? Una scoreggia fa rima con l’odore, la realtà non ha parole, nuda e cruda da mangiare viva agognando il
sangue che sprizza senza sprecare gocce, il nome, come chiamarla? Maschio o femmina, una parola è una parola, che sesso ha? Come gli angeli forse, discussione sul sesso della parola che nomina
la realtà, se il nome è forma si vede un
nome forma cioè un ermafrodito, se il
nome non è forma si vede un codice di lettere, frugamento alla ricerca di cazzi e di fighe ma
non ci sono, è solo una parola, in questo caso, trattandosi di una scoreggia un profumo, buono o cattivo è un giudizio a priori, rientrata la trascendenza rientra nel culo
come il maiale al porcile? Bella domanda, se non è fuori è dentro, in filosofia si dice immanente e da qualche
parte si deve sfogare, un peto mentale, la testa gonfia, gonfia, una mongolfiera e vola a modo suo, un altro giudizio a priori perché il volo non
è nella realtà, se rientra dove va? La
figura sembra confinata nel culo, qualcosa che comunque funziona come un culo e
qualsiasi cosa faccia è sempre cagare o scoreggiare, una bella poesia pettata da un culo nostalgico
che sogna l’impossibile, qualsiasi
risposta sarebbe cercare scuse ed allora così è, qualcosa che mangia e caga altrimenti muore di
fame, dal centro alla circonferenza e
poi la sfera, irradiazione sulla pelle, un pizzicotto e via.
Maschio e
femmina lo creò.
La definizione di non essere è tutto quello che l’essere non
è quindi è relativo all’essere in questione che è sempre uno contrapposto ad un
tutto, cioè il nome non è forma di Aristotele o la parte non è l’universale di
Hegel.
La forma della parte, che è un nome, è l’universale ed in
tal caso non è parte, il pesciolino luccica e sguazza nella vaschetta, si vede
un ermafrodito senza testa nudo coricato che si masturba il cazzo, sotto le balle
è spalancata una vagina che per l’eccitazione sbrodola sangue misto ad acqua
come il costato di cristo e sotto la vagina un buco di culo, anche questo
spalancato che sbrodola caghetta.
Sangue acqua e caghetta si incanalano in un fiume che scorre
verso l’orizzonte scomparendo in lontananza, nel mezzo tra il centro e
l’orizzonte sulle due sponde ci sono Adamo ed Eva che si parlano al cellulare, le
loro parole scorrono invisibili nell’aria formando un ponte sul fiume e si
incontrano a metà dove sta crescendo l’albero del bene e del male, si aspetta
qualche secondo per vedere tutti i rami prendere forma, le foglie, i frutti
eccetera e poi appare un nido con dentro un uccellino intento a divorare i
vermi imbeccati da mamma e papà. A fasi successive l’uccellino cresce, adesso è
sul nido ad ali aperte, lo svezzamento è finito e vola via.
Al telefono Eva chiede: “ Dove va l’uccellino?”
Adamo risponde: “Adesso è uccello, forse è diventato duro.
L’universale nominato è diventato parte la cui forma è un altro universale, un
altro mondo che non è il nido da cui vola via ma che comunque ne sviluppa la
forma.”
“Vuoi dire la mamma ed il papà? Allora va a cercarsi
un’uccella per rifare il nido, però non
si vedono altri alberi, e neanche uccelle se si esclude la mamma, un bel
problema.”
“Non si vedono da questa parte della storia, forse vola in
un’altra che qui non si vede perché c’è solo quella.”
“Un uccello chiuso in gabbia, siamo ancora lì che ci
cinguettiamo a distanza separati da acqua sangue e caghetta? L’involucro
dell’uovo, l’orizzonte è una gabbia?”
“Sembra un feto, la caghetta lo avvolge e con una cannuccia
aspira l’acqua ed il sangue per nutrirsi, un afrodisiaco che lo fa sognare, che
sogni può avere un feto?”
Eva lecca il telefono e risponde: “Forse sogna di volar via,
allora l’utero è una gabbia oppure un nido ed il nido è gabbia…adesso ci siamo
dentro e ci stiamo telefonando, vuol dire che lo facevamo anche quando eravamo
un feto?”
“La forma di ieri è oggi, l’utero si è allargato ad un
universale maggiore, la figura si può vedere anche come una maschera o un
sarcofago e dentro i sarcofagi ci sono i morti però questo è vivo, ci deve
essere qualcosa che non gli fa sentire la claustrofobia, può essere solo un
sogno ma come potevamo sognarci se non ci eravamo mai visti e non avevamo
stampato il ricordo? Dev’essere qualcosa che poi si adatta e che per adattarsi
deve continuare a restar chiuso in un utero. L’essere non è non essere quindi
il feto è essere e tutto quello che gli sta intorno, il non essere, lo nutre, una
telefonata tra il feto ed il cibo, acqua sangue e caghetta, la forma del corpo,
un impasto, l’essere è diventato non essere, il non essere nominato è essere.”
“Un impasto di acqua sangue e caghetta che si nutre di acqua
sangue e caghetta in un universale maggiore, potrei fare la filosofa…comunque
rimane sempre un feto chiuso in un utero, sembra uno specchio, ci sono davanti,
mi guardo, quello che vedo non è quindi è cibo, sempre lo stesso, questa
brodaglia mi sta dando allo stomaco.”
Eva vomita al telefono e dall’altra parte Adamo risucchia
tutto poi fa un rutto e dice: “la forma si è trasferita, può essere stato solo
nel periodo tra l’uscita dall’universale minore ed il rientro nel maggiore, la
figura di un feto che esce e rientra dopo aver mangiato come lo stomaco delle
stelle marine, l’immagine che si adatta. L’uscita è naturale, il rientro una
trascendenza perché avviene solo nel sogno e nella realtà non si vede. La causa
non è effetto, ci deve essere un motivo che impedisce al nuovo feto di soffrire
di claustrofobia che rispecchia il primo, probabilità ce ne sono tante ma le
più pesanti sono la paura, la vergogna e nel caso di un feto l’impotenza di non
essere completo, un altro impasto puramente nominale.”
“Paura di cosa?” chiede Eva interessata.
“Se non è essere è cibo, forse di venir mangiato. La figura
si evolve, nell’utero il feto è coperto da una placenta che lo isola e protegge
dal sistema immunitario della madre di cui si nutre, in questo caso si tratta
del sistema immunitario dell’universale, gli anticorpi hanno denti che mordono
e tutti pensano solo a mangiare, il resto è conseguenza.”
“Una placenta, come un uovo nel nido…nella favola finisco in
bocca ad un serpente, è quello il nuovo utero?”
“Si vede uno scaricabarile di colpe di fronte a Dio, l’effetto e la causa, l’effetto rientra e
l’utero prende forma in dio. L’effetto, la colpa, è nominata e non è più
effetto, se non è effetto è causa di un nuovo effetto e Dio ha preso corpo, uno
scarico barile di colpe figurato da acqua sangue e caghetta con la forma di
Adamo Eva ed un serpente che li attorciglia soffocandoli tra le sue spire.”
Eva fa un gridolino e dice: “Eccitante, l’ultimo abbraccio
prima di venir stritolati.”
“Un abbraccio nell’abbraccio, chi è che stritola?”
“Acqua sangue e caghetta, si vede solo quello.”
“La forma della colpa, la colpa è effetto, chi è che dà la
colpa è causa la cui forma precedente è la paura di venir mangiati, questo
effetto ha causa nell’utero materno che a sua volta ha causa nel concepimento
quando lo spermatozoo feconda l’ovulo. Adesso si vede la corsa degli
spermatozoi verso la meta, dev’essere una lotta all’ultimo sangue e solo il
migliore arriva all’ape regina.”
“Un altro uccello uscito dal nido.”
“La figura è solo nominale, si legge che un nome esce da un
universale di nomi cioè un linguaggio ed in corsa con altri riesce a fecondare
un ovulo uscendo da un maschio per entrare in una femmina, in questo caso un
cognome che prende forma dalla colpa, sembra un programma che si realizza in
modo del tutto naturale.”
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